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Personaggi famosi e non: Altri

Sancataldesi

Anche se non sancataldese, u zì Peppi u bagariutu, è da considerare ad honorem personaggio di San Cataldo perchè giornalmente e per più di trent'anni, è stato presente nella nostra città per vendere, con il suo asino prima e con la carriola dopo, i suoi prodotti, specialmente limoni, che vendeva a tutti i bar che facevano la granita, ma anche sarde salate, sgombri sott'olio, aranciate in bustina e ancor prima in fialette liquide che si mischiavano con un litro d'acqua da agitare energicamente prima dell'uso. Soleva dormire insieme al quadrupede in una casa fatiscente del quartiere Santa Fara. Ritornava a Bagheria il sabato, e la domenica sera faceva ritorno a San Cataldo con il treno con il suo carico di mercanzia.
Tutti quelli di una certa età lo ricorderanno sempre con affetto.
Abbiamo visto che suo nipote, il regista Giuseppe Tornatore, cita suo nonno nel libro "Baaria", tratto dal film omonimo, dedicandogli questa foto in alto.

INDIVIDUI ECCENTRICI


Non è difficile, incontrare, specie nelle piccole comunità, individui che agiscono, pensano e vivono in maniera difforme dalla generalità.
Sono personaggi eccentrici che per la loro mentalità sui generis, il loro modo di agire fuori dall'ordinario, la loro anormalità, o per la loro sapienza, conoscenza o genialità, si impongono alla generale pubblica attenzione, alla nostra osservazione, al nostro studio profondo e benevolo, alla nostra comprensione e che comunque meritano la nostra considerazione e il nostro rispetto.
In ogni caso sono affabili creature umane, spesso semplici, cariche di bontà o impetuose, calme o irascibili; incoscienti che vivono, in certi casi,  quasi ai margini della società, alla quale prestano, qualche volta, la loro opera.
Tali tipi, generalmente, sono conosciuti da tutta la popolazione dell'ambiente in cui vivono, che li segue, li commenta e a volte li sopporta.
Nei miei ricordi di adolescente, mi ricordo certamente di "Vilasi", uomo buono con i bambini, e apparantemente burbero, ma innocuo e divertente, ma anche di "Cantalanotte", di Ginetto, al secolo Luigi Di Gaudio, originario di Lampedusa ma sancataldese a tutti gli effetti, distinto nel suo impermeabile beige, con idee strampalate e sempre presente quotidianamente nel Corso cittadino. Oppure di Carmelo detto "Pisciamano" che per la sua diversità, ha dovuto subire le angherie di tanti ragazzi che appena lo vedevano in giro, gli correvano dietro insultandolo. Altri tempi, come stessa sorte era toccata a Vincenzo "Patrizia" ed altri, che in in quell'ambiente di bigotti, sembravano individui da perseguire, ignorando la loro sensibilità e in un certo qual modo la loro normalità. Altro personaggio colto che s'incontrava la sera e ci si fermava per fare quattro chiacchere, era Emilio "Picariddu", conoscitore delle cose di San Cataldo, che è scomparso prematuramente. E ancora "Chiachiuni" che andava in giro con delle bottiglie di vino nelle tasche del cappotto, così come Arcangelo "Pennipenni", che di solito stazionava nei pressi del Calvario, e ancora "a Mussumulisa", una delle prime prostitute di San Cataldo. In ogni caso, quello che per tutti è diventato un mito e ancora oggi si sconoscono le reali origini, è stato Taniddu Blo, che io stesso ho avuto come ospite alla Casa di Ospitalità, che divertiva tutti con i racconti ed i giochi di pseudo prestigio. Tutti questi personaggi rappresentavano il lato bonario, quasi ingenuo e semplice di una San Cataldo che non c'è più.



Catallu Milicchi

Era il nomignolo di un pover'uomo, figlio di Vullo Calogero e di Raimondi Epifania, nato a S. Cataldo l'I 1-1-1865 e qui morto il 19-4-1932.
Piccolo di statura, quasi rachitico, aveva una spalla più bassa dell'altra e faceva il facchino.
Violento e irascibile, analfabeta e ignorante spesso teneva il coltello aperto in tasca, e minacciava tutti, ma, bonaccione qual era, non fece mai male ad alcuno, anche se deriso e schernito da piccoli e grandi.
I ragazzi appena lo scorgevano da lontano, con cantilena irritante gli gridavano: «Vacabbunnu va travaglia».
E ... canticchialo oggi ... canticchialo domani, questo ritornello venne tradotto in un motivetto musicale che divenne il fischio di riconoscimento della popolazione sancataldese.
Quando il ritornello fischiato giungeva alle orecchie di Catallu, questi montava su tutte le furie e «Cornuto ... ti ammazzo», esclamava. Bastava allontanarsi subito, riavvicinarlo dopo qualche istante e offrirgli mezzo sigaro che tutto veniva dimenticato e tutte tornava come prima.
Il fischio del ritornello ormai di dominio pubblico, divenne internazionale e fu il segnale di presenza dei Sancataldesi dovunque si trovassero. E ancora oggi, in qualsiasi posto del mondo, se si intona il fischio di Catallu Milicchi, un sancataldese ti risponderà subito con lo stesso ritornello, e seguirà l'abbraccio in terra straniera.
La gente, come abbiamo sopra accennato, si divertiva a far montare sulle furie il povero Cataldo, il quale dopo tutto cercava l'avventura che spesso gli fruttava mezzo sigaro, un bicchiere di vino.
Nel 1912, alcuni giovani gli prepararono un tiro birbone, ma molto grazioso: lo invitarono a caricarsi sulle spalle una cassa chiusa, un po' pesante, che doveva portare da un negozio sito nei pressi del vecchio Municipio (ora ex palazzo delle Poste) al centro della città e precisamente al Caffè Centrale (ex bar-tabacchi delle signorine Ciurciula).
Cataldo, allettato dalla lauta ricompensa pattuita, accettò e si fece caricare sulle spalle la cassa, ma, come al solito, sotto il peso, cominciò a bestemmiare sottovoce.
Fatti pochi passi sente il fischio: «Vacabbunnu va travaglia».
Si inviperisce, si morde le labbra, sospetta di qualcuno dei giovani che l'accompagnano; ma essi si sono distaccati alquanto onde dargli la sensazione che non c'entrano. Cataldo cammina caracollando non tanto per il peso della cassa, quanto per la instabilità della stessa.
Ma ecco, il fischio si ripete, incalza, gli è proprio vicino. Si dispera, non sa cosa pensare e cosa fare. I giovani gli si avvicinano. Cataldo grida «Cchi ffa a ittu?» (cosa faccio la butto?). Tutti ridono, si divertono, fanno però gli indifferenti e gli girano attorno in modo da non farsi vedere. Ancora un fischio. Forse ha il dubbio che il fischio venga da dentro la cassa, ed esclama: «La staiu ittannu» (la sto buttando).
I giovani ridono a crepapelle, mentre il ritmo dei fischi si fa più accelerato. Cataldo grida: «Curnuti tutti, ora a ittu veru» e butta la cassa che viene presa quasi a volo da coloro i quali, prevedendo il gesto, lo seguivano. La cassa giunse a terra quasi lentamente. Da essa salta fuori Alfonso Pagano di Rosario, allora decenne, mingherlino e indiavolato. Cataldo si rende conto dello scherzo, si adira, tira fuori il coltello e fa per inseguire il ragazzo, il quale scappa come uno scoiattolo. Alcuni giovani si avvicinano a Catallu e lo rabboniscono, gli mettono in bocca il sigaro e in tasca una manciata di spiccioli; Cataldo bestemmia, rivolge ancora delle minacce contro il ragazzo che nel mentre è fuggito, ma poi atteggia la bocca a riso, si allontana a passi lenti lanciando, felice, boccate di fumo.

La  calandra (calannira in sancataldese) di Terranova

Cristoforo Terravecchia era uno dei barbieri più in vista del nostro paese. Tornato dall'America, dove aveva accumulato qualche dollaro, impiantò un elegante e moderno salone all'americana nella parte alta del Corso Vittorio Emanuele. Amante dei volatili, allevava sempre uccelli di pregiata varietà che, con i loro gorgheggi, allietavano i clienti. A quei tempi, nel 1913, il Terravecchia aveva una calandra dal canto melodioso e dai gorgheggi bizzarri, molto incline alle imitazioni di ritornelli, e che teneva in una grande gabbia, molto elegante, che soleva appendere al muro, a fianco dell'ingresso del salone. Il barbiere, con pazienza certosina e adeguato e diurno esercizio, insegnò all'uccello il ritornello di Catallu Milicchi «Vacabbunnu va travaglia».
E, prova oggi, fischia domani, la calandra riuscì finalmente a fischiettare il ritornello con una certa precisione.Tutto il giorno si sentiva quel fischio ed era il passatempo della clientela del Terravecchia e dei passanti, specie dei monelli, i quali non si stancavano di fischiare il ritornello fino a quando non l'avesse intonato la calandra.
Un pomeriggio estivo, Catallu Milicchi aveva di già pranzato, e, come di consueto, si recava in una bettola di via Pignato, per fare la siesta centellinando qualche bicchiere di buon vino di Vittoria.
Dal Corso Vittorio Emanuele aveva appena imbroccato la via Pignato, quando il solito fischio gli scuote i nervi, gli offusca il cervello, lo imbestialisce: «Vacabbunnu va travaglia». Si ferma, origlia, scruta avanti e indietro. Il fischio si ripete ancora varie volte. Ritorna, sbocca nuovamente nel Corso Vittorio Emanuele. Il fischio è più vivo, più insistente. Cataldo capisce. Assapora per un attimo la soddisfazione della vendetta. Corre come un forsennato verso la gabbia. Bassino come è di statura, stenta ad arrivare fino all'uccello. Fa qualche salto, ma don Cristoforo, vigile come sempre, lo trattiene. Milicchi bestemmia, lancia improperi contro tutti. Don Cristoforo assume un tono benevolo e convincente e gli fa una carezza paternale. Cataldo finalmente si convince, ma borbotta e minaccia il finimondo per un'altra volta.
Don Cristoforo gli mette in mano la solita manciata di spiccioli e «vattene a bere, gli dice, il fischio non è per te». Cataldo atteggia il viso a risolino, borbotta ancora, bestemmia sottovoce ... stringe il pugno e torna in via Pignato.

Don Rachele
Autentico galantuomo nel senso più squisito della parola, lavoratore instancabile (faceva il pastaio), affabile con tutti, rispettoso e benvoluto, era un po' bisbetico, capriccioso, quasi lunatico, specie quando si abbandonava nelle braccia di Bacco, suo indivisibile amico. Rachele Immormino era nato nel 1844, da Antonio e da Amarù Maria, e rimasto vedovo, abitava in un terrano della via Garigliano, dove, a fianco della porta di ingresso, in alto, vi era una piccola nicchia (figuredda) con un Crocefisso.
Quando aveva bevuto più del solito (e capitava sovente) tormentato da alcune idee fisse che gli ballavano nella mente, si confidava col SS. Crocifisso, a voce alta, per imprecare contro il Prof. Artesi, reo soltanto di essere fratello dell'avv. Francesco, il quale, a sua volta, aveva il torto di avere regolarmente sposato la cognata di Don Rachele, vedova.
Il prof. Artesi era uno degli insegnanti elementari più in vista del Corpo Magistrale di S. Cataldo. Don Rachele, quando si recava a passeggio per le strade cittadine, soleva riempirsi le tasche di caramelle. Attillato, liscio, impeccabile, fiore all'occhiello, cappello a palla, abito a vita, spesso usava indossare un tight a colori alla vecchia moda dell'800. Ferrava i fanciulli e: «Dove vai a scuola?» chiedeva. «Dal Prof. Artesi» era certamente la risposta. «Scecco tu e il tuo maestro pur ancora. Usci, serpe infame», esclamava. Spesso i fanciulli si mettevano d'accordo fra loro: alcuni rispondevano che il loro maestro era il prof. Artesi, altri che andavano a scuola da altri maestri. E don Rachele, ai primi: scecco tu ecc.. diceva, mentre agli altri riempiva le tasche di caramelle, che i fanciulli dividevano di nascosto.
Nutriva grande ammirazione per la Baronessa Isabella Baglio, donna nobile di animo e di cuore, colta e distinta. Si diceva che fosse lei a guidare il marito nella vita politica, il comm. Cataldo Baglio, che fu Sindaco per parecchi anni. Don Rachele, nelle Domeniche che dedicava al dio della vite, si piantava sotto i balconi della casa Baglio, nel Corso Vittorio Emanuele, quasi di fronte alla Chiesa del Rosario e, per ore e ore, predicava ad alta voce: «Isabella metti i calzoni e va' tu al Municipio, Cataldo il buono resta a casa.».

Evidentemente tutti lo compativano e lo rispettavano. Aveva dei figli artigiani, educatissimi e pieni di bontà, i quali, spesso, con affabilità e tatto, lo conducevano a casa.
Morì a S. Cataldo il 14-2-1932 all'età di 88 anni, compianto da rutta la popolazione.

Pasquali Curvaniddu
Curvaniddu era la storpiatura dialettale del cognome di certo Pasquale Caruana.
Tipo eccentrico ed estroverso, semi-analfabeta ma educato, faceto, garbato, aveva un modo simpatico e del tutto personale di trattare con il prossimo, anche per la sua leggera balbuzie. Figlio di umilissima famiglia, nato nel 1872, il Caruana faceva il mediatore di frutta e verdura, legna ed altro e tale suo mestiere lo portava a contatto di tante famiglie, per cui era da tutti conosciuto e ben voluto. Molto amico di Bacco, quasi tutti i pomeriggi era alticcio; in preda ai fumi dell'alcool, diventava più allegro e più esuberante, ma non perdeva mai il controllo delle sue azioni, improntate sempre a modi gentili ed educati.
Alto, esile, paonazzo in viso, concludeva ogni suo parlare con il grido: Viva la Matri Addilurata (Viva la Madre Addolorata), della quale aveva grande devozione. Tale devozione si riferiva esclusivamente alla statua dell'Addolorata che si porta in processione la sera del Giovedì Santo insieme con quella di San Giuvannuzzu. In quella sera di ogni anno, Pasquali Corvaniddu, per tre ore, dalle 21 alle 24, era il portatore numero Uno della statua dell'Addolorata e, ad ogni passo, a viva voce, invitava i fedeli a gridare: Viva la Bedda Matri Addilurata.
Abitava nella centralissima via Speranza, la stradetta di fronte alla Chiesa del Rosario, che è larga meno di un metro e cinquanta. Approssimandosi la sua festa un anno dei primi del ventesimo secolo, Pasquali si era fatto confezionare un abito nero di Cirviotta (Cheviot), che allora era di gran moda, che doveva indossare, per la prima volta, il Giovedì Santo. In preda all'euforia per il nuovo abito nero, quel pomeriggio aveva bevuto più del solito. Indossato l'abito nuovo si apprestava ad uscire, quando si scatenò un furioso temporale. Bloccato davanti l'uscio dall'acqua che cadeva a catenelle, restò titubante e incerto. L'attesa, però, lo spazientisce e, quando si convince che ormai non può più fare bella mostra dell'abito di Cerviotta nero, esce sotto l'incalzare della tempesta sfidando le intemperie della natura, ma l'acqua sempre più alta gli arrivava alle ginocchia.
Imperterrito, incede, barcolla; vuole ritornare, rimane interdetto e pensieroso, poi non resistendo più, si lancia nell'acqua, e, togliendosi il cappello, grida: Viva la Bedda Matri Addilurata, mentre la corrente lo trascina nel Corso Vittorio Emanuele.

Catallu ...lla ...lla
Era un gran brav'uomo.
Fanciullo, venne colpito dalla meningite cerebro-spinale che gli lasciò dei gravi postumi che menomavano la sua parola, la sua intelligenza; gli rimase inoltre una strana forma di amnesia, la balbuzie o, meglio, lo strascico della parola, con una mentalità del tutto fanciullesca tanto che usava ornarsi le dita di anelli e di metalli luccicanti.
Cresciuto negli anni e rimasto privo di genitori, per vivere prestava dei servigi a privati per i quali, generalmente, in quei tempi di penuria di acqua, si recava ai Cannoli a riempire le brocche.
La pietà della gente lo manteneva in vita, e non gli mancò mai  un tozzo di pane e una minestra.
Si chiamava Angilella Cataldo di Carmelo e di Riggi Giuseppa, ed era nato a S. Cataldo il 4-5-1874, in via Pergole.
Quando gli si chiedeva quale fosse il suo cognome, non riuscendo. per la sua balbuzie, a pronunziare le prime lettere finiva col dire soltanto ...llà ...llà, o meglio A... A... An... Gi... llà... llà.
L'ultima sillaba "llà... llà..."  la pronunciava con maggiore accensione ripetendola, perché pronunciando il finale si toglieva da un grande impaccio.
Fu così che venne chiamato Catallu llà... llà.
Poiché era in lui spiccata la mania di adornare di anelli le sue dita, una volta, considerando, forse, il pene un altro dito, lo adornò con un vistoso anello. Per la stasi venosa venutasi a creare, il pene si ingrossò enormemente per cui fu necessario ricorrere all'opera di un fabbro ferraio che dovette usare la lima per liberarlo. Da quel giorno Catallu llà... llà... gli anelli li lasciò soltanto alle dita.

E ….zzolla
Quando nel 1946 vennero indette le elezioni dei Deputati alla Costituente, dopo la caduta del Fascismo, i partiti politici in Italia ebbero una larghissima fioritura.
A S. Cataldo ne nacque uno, si fa per dire, comico, carnascialesco, il quale ebbe lo scopo di mettere in berlina la fungaia di partiti di tutte le tendenze e di tutti i colori e, contemporaneamente, di divertire la popolazione.
Fu il caratteristico, geniale parto della mente di alcuni giovani "mmurritusi" capeggiati da Eugenio Palmeri, perito minerario.
Essi trassero lo spunto dalle stranezze e dai capricci di un concittadino, certo Alù Giuseppe di Giuseppe e di Riggi Maria, nato a S. Cataldo il 18-2-1902 e morto il 14-4-1957, inteso E...zzolla.
Di statura normale, snello, denutrito, malaticcio, di cervello bizzarro e fantasioso, faceto e allegro, amante del lavoro e anche di bacco. La sera nei Caffé, nei Sodalizi cittadini, ove recatasi appositamente e ove era bonariamente tollerato, si intrometteva dovunque, tra i giovani, iniziando e terminando il suo dire col motto: E...zzolla dall'americano "It is all" che significa "ciò è tutto" oppure e basta, che si pronucia Itsol, sicilianizzato in le...zzolla,, oppure E...zzolla, come per dire: E basta, e abbandonava la comitiva. E...zzolla oggi ed E...zzolla domani, all'Alù rimase il soprannome E...zzolla; e di ciò anch'egli si mostrava contento.
Il nuovo partito si chiamò: Partito agnostico e aveva per motto: Nais... nais... nais... E...zzolla, mentre i cosiddetti adepti spingevano avanti la destra, tenendo il pollice in alto.
I fondi necessari furono tratti da una raccolta spontanea, volontaria.
La propaganda relativa doveva avere il suo epilogo nella presentazione al pubblico dell'unico candidato: il Sig. E...zzolla.
L'ultimo giorno dei comizi è un Venerdì di Maggio, una serena, tiepida sera di Maggio. Il popolo sancataldese, con molto anticipo, si riversa sul Corso Vittorio Emanuele. Finestre e balconi, illuminati a festa, rigurgitano di donne. S. Cataldo è tutta qui, con la sua mentalità e i suoi complessi, avvolta in una aureola di gioia e di euforia, per sentire il discorso di E...zzolla.
Sono esattamente le ore 23,10 quando, annunziato da alcuni colpi a cannone, spunta dalla parte bassa del Corso Vittorio Emanuele, come se venisse dal Capoluogo, una traballante vettura Fiat 509, spinta a braccia da centinaia di giovani, che gridano: Nais... nais, e la popolazione, unanime, risponde: E...zzolla.
La Fiat 509, sulla quale è in piedi il candidato, passa tra due fitte ali di popolo plaudente. È un momento di irrefrenabile entusiasmo. "Viva ZZOLLA, Viva il nostro candidato, viva l'onorevole ZZOLLA."
E tutti si accodano, corrono dietro alla macchina per godere fino alla fine dell'indimenticabile spettacolo.
Quando E...zzolla si affaccia al balcone di fronte al Circolo di compagnia, uomini e donne vanno in visibilio, ridono, applaudono. "Nais... Nais..." gridano i giovani che sono al balcone assieme al candidato, e tutti rispondono in coro: "E...zzolla, E...zzolla. zzolla".
Lindo, dritto, colletto bianco inamidato, calzone grigio, coperto da un abbondante frac, che insacca l'esile corpo, E...zzolla si appoggia alla ringhiera con ammirevole faccia tosta, saluta la folla chinando il capo al centro, a destra e a manca. Un giovane che trovasi al suo fianco grida: "Silenzio, parla l'On. E...zzolla.".
La folla ammutolisce, Peppino Alù esclama: "Concittadini, vi ringrazio della manifestazione di affetto che non dimenticherò mai... Quando sarò alla Camera, farò distribuire pane a volontà a tutti i miei concittadini, poi farò dare soldi, ma prima, però, penserò per me, poi darò un posto e una pensione a tutti.
Nessuno deve più lavorare... a tutto penserò io...
Dovete avere fiducia a me... Votate bene - Ciao, ciao, ciao ed arrivederci e E...ZZolla.
Le uItime parole dell'Alù chiudevano in allegria i comizi del 1946 a San Cataldo.

Mastru Luigi lu foddi
In una cameretta di via Agostinello (oggi via Sicurella), alla quale si accede da una scala situata nell'interno del cortile "Sacramento", abitava Mastro Luigi (forse Cammarata) che l'adibiva ad abitazione e a bottega di falegname.
Tipo bislacco e strampalato, strano e stravagante, solo, senza famiglia (era diviso dalla moglie) godeva fama di pazzoide e da tutti era chiamato mastru Luigi lu foddi.
Un giorno, entrato nella chiesa di S. Giuseppe, deserta e glaciale, impressionato dal fatto che dinanzi al Tabernacolo dell'Altare Maggiore, dentro cui era custodita la Sacra Pisside con le Ostie Consacrate, non ci fosse neanche un lumino acceso, aperta la porticina del Tabernacolo, prese la Pisside e la portò a casa.
Religiosissimo e timorato di Dio, giunto nella falegnameria, pulì ben bene una cassetta e su di essa adagiò rispettosamente la Pisside dopo di averla baciata più volte con le lacrime agli occhi e vi accese due candeline.
Da quel momento, mastro Luigi, sempre in ginocchio dinanzi alla Pisside, recitando preghiere, rimase tappato in casa.
La notizia della sparizione della Sacra Pisside impressionò fortemente i fedeli, i quali, tra fantasiose concetture, giornalmente si recavano in Chiesa a pregare perché si avverasse il miracolo del ritrovamento.
Essendo rimasta chiusa per circa tre giorni la porta della falegnameria, i vicini, sospettando che a mastro Luigi fosse capitata qualche disgrazia, sommessamente si accostarono alla porta.
Ma quale non fu la loro meraviglia quando, guardando dal buco della serratura, videro le candeline accese e mastro Luigi in ginocchio, in preghiera. Compresero allora che il trafugamento della Sacra Pisside era stata opera della sua pazzia e corsero ad informare l'Arciprete. Questi, conoscendo l'anima profondamente cristiana di Mastro Luigi e non ritenendolo capace di commettere un furto, preparò una grandiosa manifestazione.
In un baleno tutta S. Cataldo affollò la piazza S. Giuseppe dove si formò un imponente corteo, con in testa il Clero in paramenti di festa, che si recò in via Agostinello, dove Mastro Luigi era ancora assorto in preghiera. Il padre Arciprete bussò alla porta. Mastro Luigi aprì e alla vista dei Sacerdoti esclamò: "Perché avete lasciato il Signore al buio?".
Il padre Arciprete prelevò la Sacra Pisside. Si ricompose il corteo e si svolse una solenne processione che si recò alla Chiesa di San Giuseppe ove venne cantato un Te Deum di ringraziamento, gli abitanti del rione, raccolte delle somme, fecero costruire dentro il cortile una figuredda (una nicchietta) dentro la quale fu posto un quadro in pittura raffigurante l'episodio, e precisamente "Pisside su una cassa ed un uomo in ginocchio che prega". Da allora il cortile fu chiamato Cortile Sacramento.

Dino Butera "U Siminzaru"
Ricoverato per un ictus, lo danno per «spacciato» e prima di finire all’obitorio «resuscita» a sorpresa
Per alcuni è stato miracolato, per altri è semplicemente «resuscitato», secondo altri, ancora ha semplicemente sollevato il capo dalla cassa da morto dove era stato frettolosamente riposto.
A San Cataldo insomma, non si parla d'altro, sebbene nei racconti si tende a travisare un tantino i fatti. Ma Dino «u siminzaru», come è conosciuto da tutti in paese per via della sua bancarella di noccioline, pistacchi e frutti secchi che tiene in piazza Mercede, è ancora vivo e vegeto, checché se ne dica, e Dino «u siminzaru» vuole farlo sapere ai compaesani. Il «pacioccone buono», al secolo Cataldo Butera, 47 anni, (all'epoca del fatto), sposato e padre di quattro figlie, dieci giorni fa era sta dato per «morto» a causa di un improvviso ictus cerebrale che lo aveva colto mentre si trovava in casa. Trasportato subito in ospedale i medici hanno lottato per ore per strapparlo alla morte ma poi il responso clinico era stato lapidario: «Non c’è più nulla da fare». La moglie Maria Vella, quasi non ci credeva. Fino a poche ore prima lo aveva visto trainare la pesante e vecchia bancarella con la “simenza” da vendere in piazza. Invece poi se lo ritrovava immobile sul letto e lei era impotente di fronte a quanto le avevano appena comunicato i medici. Ad un certo punto i parenti che si erano radunati nella corsia d'ospedale attendevano quasi l'ultimo respiro del poveretto ed invece, con gli infermieri già mobilitati per trasportarlo all’obitorio, succedeva l'incredibile. Dino, che sta per diminuitivo di Cataldino (malgrado la mole) non ci stava ad andarsene e si risvegliava dal coma chiedendo conto di ciò che accadeva accanto a lui. Facile intuire la sorpresa di quanti stavano al suo capezzale. «Mi sento come rinato», dice adesso nel suo italiano stentato, mentre ci accoglie nella sua modestissima casa di via Giannone, al ci vico 36, nel cuore della San Cataldo antica. Un vano a pianterreno, in una traversa di via Cavour, che sembra più un tugurio che una casa dove vivono sei persone. In pochi metri quadrati trovano «rifugio» lui, la moglie, e le figlie Biagia, Concetta, Katia e Laura. Con il sorriso sulle labbra cerca di raccontare la sua incredibile vicenda e mostra con gioia come si è ripreso in fretta dall'improvviso “male”. «lo non ho capito nulla di quanto succedeva, racconta, e mi hanno detto che sembravo morto a tutti gli effetti, persino per i medici. Ma il Santo mi ha aiutato». E' molto devoto al patrono del paese, San Cataldo, e quando parla indica il suo quadro. «Ora desidererei tanto un altro miracolo aggiunge, vorrei che qualcuno mi assegnasse la casa popolare che ho chiesto vent’anni fa. Da allora mi dicono che sono terzo in graduatoria e questo significa che ci sono altri due che stanno peggio di me».
E malgrado la famiglia Butera viva in condizioni che definire difficili è poco. «Dino» dice pure che «in tanti anni non c'è mai stata un'assistente sociale che si sia interessata al suo caso.
«Comunque vada a finire ha concluso Dino - sono contento lo stesso di potere ancora raccontare la mia storia. Speriamo che mi ristabilisca al meglio in fretta perchè devo riportare la bancarella al suo posto in piazza, altrimenti in questa casa non si mangia più. Mia moglie mi aiuta nel lavoro ma da sola non può trascinare il carretto.
Dal Giornale "La Sicilia"

Alfonso Scarpulla, Fotografo (Chiamato don Fofo')



Il suo studio fotografico era sito in via Garibaldi numero 87....
Un pianterreno umido ricordo, ma bene attrezzato. Mi affascinavano gli sfondi intercambiabili adatti per ogni situazione fotografica, matrimoni, cresime, gruppi di famiglia, fototessere ecc..
Adesso in quel posto c'è la rinomata farmacia A.Pilato.
Ricordo tutto questo molto bene perché avevamo la sartoria proprio accanto al suo studio.
Personaggio molto amato e conosciuto, gentile quel tanto che bastava, di poche parole, ma possedeva quel tatto e quella discrezione che lo rendevano amorevole e rassicurante.

Chi di noi sancataldesi almeno una volta nella vita non si fece fotografare da lui?
Penso tutti, anche perché all'epoca i fotografi non è che abbondassero così tanto.

Parlo degli anni 40, fino agli anni 90 pressappoco.
Ricordo una canzone uscita intorno agli anni 50 cantata dal grande "Nino Taranto" che per titolo faceva "Ti la vo fa' na fò" e le parole si adattavano e si incastravano perfettamente alla professione di questo splendido personaggio.


Ti la vuó' fá fá na fo'?
Ti la vuó' fá fá na fo'?
Jammo, fattélla fá, bellezza mia...
Io metto a fuoco e...ttá!
tu si' venuta giá...
Fatte fá 'a fò'...
fatte fá 'a fò'...
fatte fotografá

E noi sancataldesi la concludevamo così...
Fatte fa' a fo'...
Fatte fa' a fo'...
Fattilla nni' don Fofo'.
(Foto e articolo di Lillo Scarantino, il sarto)

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