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La rivalità fra San Cataldo e Caltanissetta

San Cataldo > San Cataldo vs Caltanissetta

La rivalità fra San Cataldo e Caltanissetta

Da sempre, non è mai corso buon sangue tra nisseni e sancataldesi, già nel dicembre 1651, Luigi Guglielmo Moncada dovette sollecitare l’emanazione di lettere osservatoriali che ribadissero la sostanza delle precedenti ottenute dal padre, al fine di sabotare la pretesa degli abitanti di San Cataldo di impiantare una nuova salina nel loro territorio, visto che i nisseni si arrogavano di avere l'esclusività e fare pagare i sancataldesi per usufruire della stessa.
Ancora nel 1608 Antonio Moncada, fresco di nomina come cavaliere del Toson d’Oro e nel frattempo trasferitosi a Madrid per contrarre le nozze con la figlia del duca di Medinaceli, Giovanna La Cerda, dovette farsi interprete presso il sovrano Filippo III dell’atteggiamento di ostilità con cui i suoi vassalli nisseni reagirono alla nascita nel territorio circostante (a poco meno di 10 chilometri) del nuovo centro di San Cataldo, fondato da Nicolò Galletti, barone di Fiumesalato, in virtù di una licentia populandi rilasciata dal viceré d’Escalona il 18 luglio dell’anno precedente. Nel suo memoriale, il principe di Paternò stabilì in apertura un collegamento preciso tra quella nascita e l’aggravamento delle condizioni finanziarie dell’università nissena, la quale, pur avendo ottenuto dal viceré e dal Real Patrimonio una dilazione nel pagamento delle tande regie, oltre all’autorizzazione a imporre alcune gabelle civiche per la durata di sei anni, non era più in grado di far fronte ai debiti crescenti da cui era gravata. Ciò era dovuto, secondo l’esponente, a un fenomeno di progressivo spopolamento del centro nisseno che, attivo già a cavallo tra XVI e XVII secolo, si era intensificato nell’ultimo anno a causa della forza di attrazione esercitata dal nuovo insediamento e, soprattutto, dalla prospettiva degli sgravi fiscali (esonero dalle gabelle municipali e moratoria per i debiti) che il trasferimento in esso avrebbe garantito. Come egli stesso rilevava, sapere dal signor principe di Pietraperzia, di Santa Caterina, marchese di San Cataldo.
Per inciso, il riferimento ai beni immobili lasciati a Caltanissetta da quanti avevano scelto di trasferirsi a San Cataldo consente di far luce su uno specifico elemento di debolezza del sistema fiscale locale, che consisteva nel fatto che quegli stessi beni, nella misura in cui venivano inclusi nei riveli sui quali si basava la ripartizione
dei tributi statali tra le singole università, finivano per gravare ulteriormente su queste ultime, evidenziandone un potenziale contributivo superiore alle capacità reali, in quanto, come si è detto, possessori di beni non residenti (“bonatenenti”) non erano soggetti al pagamento delle gabelle.
Proprio la fondazione di San Cataldo avvenne, non a caso, dopo una grave crisi di produzione, che fu tale da giustificare, tra il 1606 e il 1610, la concessione di circa 17 licenze, un numero piuttosto ingente se si pensa che è lo stesso numero delle licenze accordate nell’intero ultimo trentennio.
Accanto ad esso venivano riportati anche blasoni comunali riferibili all’atavico confronto campanilistico con San Cataldo. Se i sancataldesi ingiuriavano i nisseni come quartarara, essi rispondevano pauluna. Legato, invece, alla forte emigrazione dei secoli scorsi è l’imprecazione (accompagnata da un sonoro fischio): “Vacabunnu va travaglia!” che ancora oggi i sancataldesi in giro per il mondo si lanciano come segno di riconoscimento non appena si incontrano fuori dal proprio paese.

Maunzisi e Vintidù

Seppure siano adoperati dalla totalità degli abitanti, giovani e vecchi, nessuno forse, a parte gli adulti più eruditi, è in grado di risalire alla vera origine dei blasoni popolari, che è invece documentata e secolare.
Infatti sembrano potersi ricondurre con certezza ad un preciso episodio avvenuto nell’agosto 1820, durante i moti anti-borbonici che interessarono la Sicilia, e tutto il Meridione, a cavallo tra il 1820 e il 1821. In pratica avvenne che l’isola si divise tra chi, come le province orientali, richiedeva l’applicazione della costituzione spagnola in linea con i rivoltosi costituzionalisti napoletani, e chi chiedeva, in linea con la politica occidentale palermitana, che venissero riconosciuti ai siciliani governo e parlamento propri.
La città di Caltanissetta appoggiò la politica napoletana e dovette fronteggiare le rappresaglie organizzate, per conto dei palermitani, dal Principe Galletti di San Cataldo, che coordinò i gruppi di guerriglia inviati dai vari comuni, fra cui Marianopoli. Nel corso della tregua di una battaglia che vedeva fronteggiarsi gli uni e gli altri, un gruppo di armati nisseni, che avevano fatto una sortita per respingere i briganti che saccheggiavano le campagne, attaccarono di sorpresa i marianopolitani e si impadronirono del posto di guardia di Babbaurra. Si gridò al tradimento perché le trattative erano ancora in corso, tanto che gli uomini che erano stati sconfitti si precipitarono dal Principe chiedendo vendetta. Fu facile, in quegli anni in cui il Teatro dei Pupi proliferava con particolare fortuna, collegare il tradimento al traditore per eccellenza, Gano di Magonza, e alla stirpe dei traditori maganzesi.
Il blasone popolare nisseno ha dunque una connotazione fortemente negativa, e tuttora si affianca spesso al deonomastico maunzisi l’attributo tradituri.
Il blasone vintidù attribuito a San Cataldo ha invece una storia forse meno lineare. Anche in questo caso la memoria storica potrebbe risalire agli stessi avvenimenti che hanno portato alla nascita del blasone dei vicini nisseni. La vittoria di Caltanissetta, ottenuta anche grazie all’episodio di Babbaurra, coincise con la definitiva vittoria dei Borbone, che concessero al capoluogo il titolo di “città fedelissima”. Di contro, nel 1822 si svolse il processo militare a carico del Principe Galletti (nel frattempo, in realtà, datosi alla latitanza) e di altri 1313 imputati, fra cui molti sancataldesi. Forse a memento di quell’anno nero per la cittadina vicina, i nisseni incominciarono ad appellare vintidù i sancataldesi. Come si è visto, presso gli abitanti di San Cataldo, le ragioni storiche che hanno portato alla nascita del blasone sono del tutto rimosse. È sempre rilevato, invece, soltanto il valore quasi sinonimico che lega ventidue a pazzo. E’ possibile, poiché nella smorfia napoletana il numero 22 è associato alla follia, che gli stessi sancataldesi abbiano traslato il significato ingiurioso del blasone, legato alla sconfitta ed alla umiliazione conseguente, rendendolo meno pesante.

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