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La guerra del 1820 vs Caltanissetta

San Cataldo > San Cataldo vs Caltanissetta

Cronostoria raccontata da nisseni e sancataldesi, credo che la verità stia in mezzo....

N.B. Alcuni storici avversi a S. Cataldo o al Principe Galletti, occupandosi della guerriglia tra Caltanissetta e S. Cataldo, trattando degli atti vandalici, degli incendi, dei massacri, delle devastazioni, della dispersione di carte e documenti, della distruzione di uffici, di depredazioni, in città e in campagna, scagliano contro le truppe di S. Cataldo e i Sancataldesi le loro frecce avvelenate.
L'abbate Antonino Coppi, che il Mulè Bertolo ebbe la dabbenaggine di chiamare storico spassionato, svisando la storia e la sua realtà, afferma che il Principe Galletti, nel giorno 11 Agosto unì da diversi paesi in quella terra cinque o seimila mascalzoni, avidi di rapina. A parte le ingiurie non degne di un prelato, che mostra una partigianeria morbosa, il numero di 5 o 6 mila è una esagerazione mastodontica, sia perché l'armata sancataldese non superò mai il numero di 800 individui, sia perché, con tale menzogna, si cerca di sminuire il valore di pochi uomini che tutto sacrificarono per la vittoria.


Nel 1818, il Comune di San Cataldo prese a far parte della Provincia e Distretto di Caltanissetta. La rivoluzione di Napoli incitò alla rivolta il popolo di Palermo al quale si unì quello di San Cataldo stanco di sopportare i soprusi e le angherie da parte delle autorità borboniche. Gli abitanti di Caltanissetta invece, per dimostrazione di fedeltà ai Borboni e per non perdere i privilegi ottenuti, non aderirono ai moti popolari. La Giunta rivoluzionaria di Palermo istituì sette guerriglie dirette ai capoluoghi delle provincie per ottenere la loro adesione ai moti popolari. A capo della guerriglia composta da ottocento uomini di estrazione sociale eterogenea, reclutati a Bagheria, Villalba e pochi a San Cataldo, fu nominato il principe Salvatore Galletti,  Principe di Fiume Salato, che chiese lui stesso di poter guidare la guerriglia contro Caltanissetta, certo di poter sfruttare la sua conoscenza dei luoghi e soprattutto fidandosi dei suoi rapporti con i notabili della città. Il 7 agosto, cioè due giorni dopo il giuramento delle autorità nissene alla costituzione di Napoli, il Principe si recò a San Cataldo che era la sede del suo titolo nobiliare e vi stabilì il suo quartier generale presso il convento dei Cappuccini di San Cataldo. Egli aveva fatto il suo ingresso in paese tra le acclamazioni e le grida di “Viva l’Indipendenza!” dei sancataldesi in festa che portavano rami di olivo e indossavano la coccarda. Sulla piazza della Chiesa Madre il Principe, dopo aver liberato diversi detenuti politici dalle carceri del paese, radunò il popolo a suon di tamburo ed elesse la nuova Giunta Provvisoria scegliendo diversi proprietari terrieri.
Aveva intanto inviato i suoi campieri nei comuni vicini per arruolare uomini con la promessa di “soldo e bottino”. Mentre gli armati cominciavano ad arrivare, il Principe invitò un suo antico amico, don Mauro Guittardi di Caltanissetta, ad un abboccamento segreto e gli consegnò i decreti e i proclami pubblicati in Palermo per affiggerli a Caltanissetta e diffonderli nel popolo. Il Guittardi era latore anche di tre biglietti per altrettante personalità nissene (Mauro Tumminelli, presidente del Tribunale Civile, Filippo Benintende giudice della Gran corte criminale di Girgenti) per invitarli ad un incontro “per affari di grave importanza”, però coloro cui erano diretti compresero che si trattava di un tentativo del Principe “per trarre la loro patria al partito della sedizione” e respinsero sdegnosamente la richiesta. Il Guittardi tentò anche inutilmente di convincere il sindaco e le autorità comunali ad affiggere i proclami della Giunta Provvisoria: le carte furono rimandate indietro al Principe il quale irritato “minacciò di spargere l’esterminio in quella città”.
La sera dell’11 arrivarono intanto da Palermo a San Cataldo le truppe e quattro cannoni agli ordini dei fratelli Michele e Rodrigo Palmeri Miccichè di Villalba e del capitano di artiglieria Pietro Orlando, ma gli uomini erano animati soprattutto dal desiderio del bottino e subito iniziarono a devastare le campagne intorno a Caltanissetta. Per tentare un accordo ed evitare uno scontro diretto, le autorità nissene diedero mandato ad un “venerabile vecchio” di 78 anni, padre Giovanni Domenico Anzalone, domenicano nativo di San Cataldo, ma abitante a Caltanissetta da moltissimi anni, noto in città per la sua saggezza. Mentre l’anziano sacerdote transitava sotto la montagna di Babbaurra furono esplosi numerosi colpi di arma da fuoco da parte della banda di Marianopoli che vi aveva posto un presidio ed egli, per poter passare, dovette sventolare un fazzoletto bianco. Gli uomini del posto di guardia alzarono una bandiera bianca e i sancataldesi, che la videro da lontano, accolsero l’arrivo di P. Anzalone con un festoso scampanio di tutte le campane del paese prevedendo una soluzione pacifica del conflitto. Le altre bande armate, che si erano invece raccolte nella speranza di un saccheggio, “fremettero invece di sdegno”.
Il domenicano venne scortato quasi in trionfo alla presenza del Principe Galletti che aveva posto il suo quartier generale presso il Convento dei Cappuccini. Il Principe e il suo consiglio, elaborarono e consegnarono a Padre Giovan Tommaso Anzalone un documento contenente le condizioni di resa di Caltanissetta:
• pagare la somma di onze 16 mila pari a ducati 18 mila per le opere di armamento,
• abolire la Gran Corte Criminale, il Tribunale Civile e l’Intendenza e bruciare tutte le carte di quest’ultima,
• creare una Giunta Provvisoria i cui componenti sarebbero stati nominati dal Principe,
• consegnare l’intendente del vallo Luigi Gallego, il presidente del Tribunale Civile Mauro Tumminelli, il   giudice della Gran Corte Criminale Filippo Benintende, e Mauro Guittardi,
• abbattere la Sacra Statua del Re innalzata dall’amore degli abitanti nel mezzo della Piazza Ferdinandea ed inalberare in vece sul piedistallo il vessillo della indipendenza.
La relazione del regio delegato Cassisi, che istruì il processo qualche anno dopo, insiste molto su questo documento e soprattutto sulla richiesta di abbattimento della Sacra Statua del Re, in quanto gli permetteva di formulare un’imputazione di lesa maestà, punto centrale dell’accusa contro il Principe Galletti, ma la carta andò persa nei disordini dei mesi successivi, e si ci dovette basare sulle molteplici testimonianze sia di nisseni che di sancataldesi.
Mentre P. Anzalone si trovava ancora al cospetto del Principe, sul monte Babbaurra accadevano fatti nuovi. Un gruppo di armati nisseni, che avevano fatto una sortita per respingere i briganti che saccheggiavano le campagne, attaccarono di sorpresa i marianopolitani e si impadronirono del posto di guardia. Si gridò al tradimento perché le trattative erano ancora in corso, tanto che gli uomini che erano stati sconfitti si precipitarono dal Principe chiedendo vendetta. Il Galletti, per placare gli animi, disse che avrebbe fatto tagliare la testa al povero Padre Anzalone, che essi credevano complice di tale inganno, ma in seguito dichiarò di voler offrire la propria vita in cambio di quella del vecchio sacerdote, in quanto non poteva venir meno al codice d’onore che salvaguardava i messaggeri di pace. Il Principe nel frattempo aveva mandato un proprio portavoce per trattare una tregua, il chirurgo don Giuseppe Glaviano di Mezzojuso, il quale però venne accolto a fucilate e preso prigioniero.
Le guerriglie del Principe allora presero le armi, riconquistarono Babbaurra e inseguirono i nisseni sino alle alture che sovrastano Caltanissetta. Il Principe si fermò vicino alla chiesetta rurale di santa Petronilla, chiese a Padre Anzalone di portare le condizioni di resa alle autorità cittadine e di restituirle firmate entro un’ora. Il capitano Orlando lo scortò sino al convento delle Grazie e Padre Anzalone attraversò in fretta la città per tornare al suo convento. Ma le autorità cui doveva far riferimento non erano più in città: l’intendente Gallego Naselli e il comandante delle truppe Berlingueri erano fuggiti e non fu quindi possibile rispettare i termini dell’ultimatum. I notabili della città radunati intorno al vecchio domenicano, cercando concitatamente una via di scampo, chiesero al messaggero del Principe Galletti, che era ancora nelle loro mani, di fare da mediatore e lo fecero accompagnare dal canonico Liborio Di Forti. Ma quando giunsero nei pressi del convento delle Grazie già la battaglia infuriava, il chirurgo di Mezzojuso si gettò tra i suoi e una schioppettata fece stramazzare a terra la giumenta del canonico, tanto che questi non tentò neanche di avvicinarsi ulteriormente e se ne tornò alla Chiesa madre, contentandosi di aver salvato la propria vita.
Il convento della Madonna delle Grazie in cui vivevano i Padri Agostiniani, posto all’ingresso della città, era tradizionalmente un insediamento forte: vi si era fortificata la maestranza agli inizi del Settecento per impedire l’accesso ai savoiardi, e nello stesso luogo si attestarono gli uomini armati per bloccare le guerriglie del Principe di Fiumesalato. Così il convento fu fatto segno di un vivo fuoco di artiglieria e si combattè fino a sera, quando finalmente il numero degli assalitori ebbe il sopravvento sulla resistenza degli assediati. Un gruppo di armati aggirò il convento, scavalcò il muro del giardino, si aprì un varco a colpi di scure, penetrò all’interno della costruzione e aprì il portone agli “invasori”. I monaci che in qualche modo cercavano di impedire una strage, furono presi in ostaggio e furono malmenati e feriti perché svelassero dove fosse nascosto il fantomatico tesoro di cui si era diffusa la voce tra i combattenti. Tutti i civili che si trovavano dentro il convento furono uccisi o arrestati e chiusi in una delle stanze.
La rabbia degli invasori diede luogo ad episodi di brutalità inaudita: Dopo aver percorso i luoghi tutti del Convento discesero nella Chiesa, ed ebbero l’audacia di frugare co’ coltelli tutto l’altare maggiore e di profanare fin’anco la custodia (il tabernacolo n.d.r.). Passarono indi nell’attigua sepoltura e dopo avere infranto e rotti molti baulli in cui riposavano le ceneri di trapassati, e dopo aver tolto dalle loro nicchie e gittato a terra molti cadaveri, Diego Alaimo Rovetto vomitò contro un uomo morto di recente, per dispetto di nulla aver rinvenuto presso di lui, le più esecrande imprecazioni. Contigua a quella sepoltura avvi altra piccola stanza destinata allo spurgo de’ cadaveri di recente seppelliti. Essi penetrarono colà. Diego Alaimo Rovetto si piegò in giù per esplorare sotto il locale , in cui si pongono i cadaveri a percolare. Egli si avvide di un infelice ivi nascosto e gridò immantinente “Sparagli, Santo diavolo”. Quel misero era Pasquale Gallerano e piangendo disse “Pietà che sono padre di sei figli”. Appena Gallerano ebbe ciò detto Rovetto replicò “Sparagli” ed un ordine così truce fu eseguito da un altro che lo ferì al ginocchio. Rovetto strascinò fuori per la testa Gallerano ed essendosi accorto che era tuttavia vivo, si fece puochi passi indietro e gli scaricò altra schioppettata con cui finì di ucciderlo…. I vincitori portarono nella città “la devastazione, l’incendio, la strage e il saccheggio”. Durante la notte essi atterrarono ed infransero la statua del Re e un certo Salvatore Noto, che si attribuì il merito di aver piantato la bandiera dell’Indipendenza sul piedistallo, ricevette una bella giumenta come ricompensa dal Principe. Dicono però le cronache che il Principe Galletti non fosse entrato in città, rimanendo estraneo ai saccheggi e agli eccidi, anzi, alle notizie che man mano gli giungevano, avesse versato lacrime di pentimento, avesse fatto suonare la ritirata e se ne fosse tornato a San Cataldo. Ma nessuno lo seguì: non si trattava infatti di truppe regolari, sottoposte alla disciplina militare, si trattava quasi esclusivamente di povera gente che non combatteva per un’idea, ma per la prospettiva di un buon bottino. La mattina successiva fu devastato anche il convento di Sant’Antonino che era stato risparmiato in un primo momento. I monaci erano in chiesa in preghiera ed in abiti liturgici e avevano esposto il Santissimo Sacramento pensando che questo avrebbe fatto recedere gli invasori. Ma alcuni di essi, della banda di Villalba, entrati in Chiesa si misero a bestemmiare e cominciarono a cercare nelle stanze del convento tutti i civili che vi erano nascosti e a rubar loro ciò che avevano addosso. Anzi uccisero tre nisseni che avevano intentato la fuga ed un loro compagno con cui avevano litigato per il possesso delle posate d’argento del refettorio.
Per due giorni consecutivi Caltanissetta rimase esposta alla depredazione e alla rapina. Gli abitanti de’ vicini paesi di ogni età, di ogni sesso e di ogni condizione tutti correvano a torme ad involare ciò che non era stato
portato via o veduto dagli invasori. I paesani stessi si rubavano a vicenda e le strade eran sparse de’ cereali e de’ liquidi. In quei terribili giorni vi furono anche agguati e aggressioni contro coloro che tornavano verso San Cataldo carichi di bottino perché le bande tentavano di strapparsi a vicenda il frutto delle rapine. Il danno alle cose pubbliche assommò a 3.416 onze e 3 tarì: furono rubati 240 fucili, le divise militari e tutti i mobili delle caserme; il pubblico acquedotto fu danneggiato; oltre la statua del re, furono divelti moltissimi fanali dell’illuminazione pubblica. Più gravi, ma anche più difficilmente quantificabili, i danni sofferti dai privati: furono infatti saccheggiati magazzini, negozi, case; solo ad ottobre si potè iniziare a fare una stima dei danni subiti e si formò una deputazione allo scopo.
Il bilancio finale fu di 45 morti, 83 case bruciate, e un danno complessivo di 223.542 onze, una cifra enorme per quel periodo.
Dopo due giorni di devastazione il clero cittadino si recò dal Principe chiedendogli di porre fine all’anarchia e il Principe nominò una Giunta Provvisoria e diede incarico di ristabire l’ordine alla banda armata che era giunta da Naro in ritardo e che quindi non aveva partecipato agli eccidi. Appena pochi giorni dopo questi avvenimenti, la Giunta inviò una lettera di elogio al Principe e decretò che il tenente colonnello Pietro Orlando fosse promosso al grado di colonnello di artiglieria, il maggiore Michele Palmeri e il capitano Ruggero Palmeri fossero promossi al grado di colonnello e maggiore dell’esercito, e che a don Vincenzo Marchesano fosse conferito il grado di colonnello e la medaglia d’oro per i meriti riportati nei fatti di Caltanissetta.
Anzi quando il Principe Galletti giunse a Palermo la Giunta Provvisoria gli profuse onori e applausi e gli affidò il comando della seconda divisione del Val di Mazara. Ma il 24 agosto l’esercito comandato dal generale Costa, inviato dal governo di Napoli, aveva già preso stanza a Catania per riportare l’ordine indisulla resistenza degli assediati e aveva iniziato la marcia di avvicinamento a Caltanissetta per riconquistarla e il 29 il re Ferdinando I designò Florestano Pepe (fratello di Guglielmo Pepe) comandante generale delle forze armate siciliane e Lorenzo Massoni commissario civile per la Sicilia. Il 7 di settembre, sul monte San Giuliano, dove gli uomini di Galletti avevano piazzato i cannoni per radere al suolo la città, vi fu uno scontro tra l’esercito reale e quello rivoluzionario comandato dal colonnello Orlando che venne sconfitto e messo in fuga.
Il Principe che stava tornando verso Caltanissetta per partecipare alla battaglia si fermò a Vicari, in attesa di rinforzi e ordinò una leva obbligatoria di due uomini ogni cento abitanti in tutti i paesi circostanti. Il 16 dello stesso mese Galletti era alla testa di mille fanti, duecento cavalieri e sedici ufficiali, ma non attaccò l’esercito regio, anzi aggirò la posizione e si recò a Canicattì e a Naro dove acquistava armi e cercava finanziamenti. Nel frattempo gli era giunta una richiesta di aiuto da parte dei sancataldesi che erano periodicamente sottoposti ad incursioni da parte delle truppe stanziate a Caltanissetta, ma il Principe inviò soltanto una trentina di uomini per presidiare il paese. Ma alla fine gli abitanti di San Cataldo e Caltanissetta vennero tra loro a conciliazione e quella forza fu licenziata e se ne andò via.
Il Principe nei primi giorni di ottobre, ormai abbandonato dalle truppe che avevano disertato, si trasferiva, con la moglie Concetta Platamone, i due figli Nicolò ed Eleonora e il loro seguito, da un luogo all’altro del Val di Mazara fino a che non si imbarcò a Licata su una nave inglese al comando del capitano Peterson, che lo portò in salvo a Malta.
Quando poi il re di Napoli con l’aiuto della Santa Alleanza tolse la costituzione spagnola si procedette ad un processo che vide 1313 imputati per i fatti di Caltanissetta. Nell’arco del 1822 molti di essi furono catturati e rinchiusi nel carcere di Caltanissetta, altri erano fuggiti e si erano dati alla macchia. Nella lunga relazione relativa agli atti del processo, si legge l’annotazione che il 17 novembre 1823 era stato spiccato mandato di cattura contro Salvatore Galletti Principe di Fiumesalato, latitante. La città di Caltanissetta venne invece premiata con privilegi e onori dal re Ferdinando di Borbone che le concesse il titolo di città fedelissima.

La guerra fra San Cataldo e Caltanissetta
di Salvatore Falzone
12 agosto 1820
Il Monte Babbaurra, 800 metri d'altezza, a cavallo tra i territori di San Cataldo e Caltanissetta, è un punto strategico. Qui, tra ciuffi d'erba abbrustolita, sono sparpagliate le truppe sfasciate del principe Salvatore Galletti di Fiumesalato che un mese fa, nelle stanze del suo palazzo di piazza Marina a Palermo, ha deciso di capeggiare la rivolta degli autonomisti siciliani contro i Borboni prepotenti. A parte pochi soldati, qualche tenente colonnello e un buon numero di abitanti sancataldesi, armati di fucili e coltellacci da cucina, fra le file delle milizie del principe c'è un pò di tutto: eroi, avanzi di galera, sediziosi, ladri di galline, violenti da strapazzo e alcolizzati cronici, chiamati a raccolta dai comuni vicini. Nessuno di loro sa come si combatte una battaglia, ma tutti sono d'accordo: bisogna sgretolare i gruppi armati della borbonica Caltanissetta. A qualunque costo. Il principe ha promesso lauti bottini. Nel convento dei padri Cappuccini è ubicato il quartier generale di Salvatore Galletti. Lì dentro il principe è rimasto chiuso nei giorni precedenti, bevendo acqua e limone, mentre i suoi soldati conquistavano il monte Babbaurra dopo poche ore di combattimento. In cima al monte, a tre miglia da Caltanissetta e a uno da San Cataldo, Galletti ha posizionato 200 dei suoi 800 soldati, che all'alba di oggi, dopo una notte stellata, si preparano a lanciare l'attacco decisivo. Ieri pomeriggio, l'Intendente della provincia di Caltanissetta Luigi Gallego Naselli ha inteso l'antifona ed è fuggito dalla città a gambe levate. Lo hanno seguito 150 fanti guidati dal comandante della Valle colonnello Favalli, il quale fino a quel momento aveva curato la regia delle operazioni di difesa, riunendo due compagnie di 150 uomini ciascuna e aggiungendovi 50 militi di fiducia della Compagnia mobile provvisoria. Stamattina, abbandonati dai loro prodi strateghi, i nisseni si sentono perduti. Inneggiano al re di Napoli, ma battono i denti per la paura. Tuttavia, in preda a un impeto superbo di orgoglio, hanno provato a riorganizzarsi alla meglio, infervorati dalla retorica dei fratelli Giannone, che hanno preso in mano le redini delle truppe. Hanno caricato anche una decina di piccoli cannoni, ma di legno, perché non hanno avuto tempo di fonderli in bronzo. Alle nove e un quarto le truppe del principe aspettano ancora il segnale d' attacco. C' è caldo, invece, e non ci sono alberi che fanno ombra. Verso le dieci i nisseni spediscono un certo Giovan Tommaso Anzalone, padre domenicano, 78 anni, come ambasciatore di pace. Nel convento dei monaci Cappuccini il principe Galletti, cortese, lo riceve. I due discutono. Alla fine scendono a patti: i nisseni dovranno consegnare Gallego e i magistrati istigatori della resistenza, tutto l'arsenale con le armi, 16 mila onze per le spese di guerra e la garanzia scritta dell'adesione alla rivoluzione palermitana. L'ambasciatore fa sì con la testa, le trattative sembrano andare in porto, il principe è soddisfatto. E per un attimo s'illude di averla spuntata: ancora non sa che, mentre lui sta trattando col vecchio, un drappello di 400 nisseni assalta di sorpresa il monte Babbaurra per costringere l'avamposto del principe ad abbandonare la posizione. I nisseni attaccano con impeto, avanzano con la falcata delle bestie feroci, gridano come forsennati: "Infami, traditori!". Presi alla sprovvista, i rivoluzionari cercano di caricare i cannoni e di sparare le prime palle, ma nella concitazione del momento sbagliano mira. I comandanti urlano disposizioni d'emergenza che non hanno niente a che vedere con lo straccio di tattica che avevano messo a punto per distruggere la città borbonica. Si sforzano di rispondere all'attacco, ma già indietreggiano senza rendersene conto. Un energumeno mezzo sbronzo risale incontro al nemico che scende dal monte e fracassa il cranio a tre fanti con il calcio del fucile, prima di essere travolto dalla carica polverosa dei borboni. Nel giro di mezz'ora i soldati del principe capiscono che non c'è niente da fare. Così volano verso San Cataldo, giù verso il basso, veloce, più veloce. Si sentono le grida di terrore di quelli che precipitano dal burrone dopo essere inciampati. I nisseni esultano, e quando arrivano sotto le mura del paese minacciano l'altro corpo d'armata collocato sulla collina Belvedere. Piovono insulti, sale la tensione. Ma le truppe di Caltanissetta temporeggiano in attesa di rinforzi e quelle di San Cataldo hanno ordini di non smuoversi di un passo dalle loro postazioni. Intanto il principe Galletti, imbestialito per quello che gli hanno riferito, s'impone di ritornare in sé e prende una saggia decisione: manderà Giuseppe Gravina in qualità di parlamentare al quartier generale nemico a protestare contro l'accaduto. Ma sia chiaro: l'inviato ha due ore di tempo per fare ritorno, e se non torna all' orario sarà la fine. Sta di fatto che Gravina non torna. Alla velocità della luce si sparge la voce che i nisseni borboni l'hanno ucciso a pietrate. Il popolo è inferocito. Grida all'inganno. Vuole vendetta: "Infami e traditori!". È a questo punto, sotto l'afa impietosa delle due, che il principe Galletti ordina il contrattacco passando in rassegna i suoi corpi armati in groppa a un puledro nero. La manovra è imprevedibile e rischiosa, anche perché un buon numero di cavalieri del regio esercito è appena giunto in soccorso dei soldati appiedati. Le truppe del principe esplodono con un grido di rabbia e si scagliano contro il nemico. Alle porte del paese scoppia una battaglia cruenta, un corpo a corpo tanto disordinato quanto micidiale. Verso le prime ore del pomeriggio, l'esercito dei rivoluzionari risale il monte Babbaurra e riprende la posizione perduta in mattinata. Il maggiore Palmeri circonda con un drappello di arditi il monte Babbaurra, il tenente colonnello Orlando avanza due pezzi di artiglieria di fronte alla posizione nemica e due pezzi di fianco. Il tenente Volpe è un mago del cannone: ferisce a morte un bel pò di nemici. I rivoluzionari si dividono in due colonne, una comandata dal capitano Rodrigo Palmeri, ferito a una spalla, che avanza lungo la strada principale; l'altra capitanata da Orlando, capitano d' artiglieria di vecchia data, che si muove per le campagne. Alle cinque del pomeriggio le truppe del principe si trovano a un tiro di fucile dalla città nemica. Dopo un'ora arrivano ai piedi del monte San Giuliano occupato dall'esercito borbonico. Il maggiore Palmeri decide di attaccarlo di fronte, mette in fuga i nisseni e si impadronisce del monastero benedettino di Santa Flavia che domina la collina più antica di Caltanissetta. Al tramonto del sole le milizie sancataldesi aprono il fuoco sulla città ai loro piedi. Scatenate. Inizia il bombardamento. Molti abitanti si rifugiano terrorizzati dentro le chiese. Ma i mercenari del principe entrano dappertutto, pure nel convento della Grazia: neanche gli agostiniani scalzi vengono risparmiati. Gli invasori frugano con i coltelli sotto l'altare maggiore, profanano il tabernacolo, spaccano i bauli in cui riposano le ceneri dei trapassati. Salvatore Noto pianta la bandiera dell' indipendenza. L'aquila siciliana viene inalberata sulla statua del re. Poi sventola da tutte le alture sulla città borbonica. Finisce la battaglia, comincia il saccheggio della fedelissima Caltanissetta.

CURRI MICHELI CA VENI CATALLU
CURRI CATALLU CA VENI MICHELI
MEMORIE DEL 1820, LANNO DELLASSASSINIO
di Walter Guttadauria (Storico e giornalista)


Agosto 2020 è stato il mese in cui ricorreva il 200° anniversario della "guerra" tra Caltanissetta e San Cataldo, consumatasi appunto nel 1820 ricordato – da parte nissena - come l’Anno dell’Assassinio per le uccisioni che vi furono nel capoluogo, i saccheggi, le distruzioni, il tutto invero tramandato secondo versioni storicamente non sempre attendibili. E’ stata comunque fatta risalire a quegli eventi la "rivalità" tra le due città, nella quale, nel tempo, si sono anche inseriti aneddoti e curiosità che di storico hanno avuto poco.
Fu comunque un anno importante nella storia non solo delle due città, ma del Regno delle Due Sicilie governato dai Borbone, che avrebbe meritato – in occasione di tale anniversario - una rilettura critica e obiettiva di quei fatti, e soprattutto del contesto storico in cui maturarono, al di là delle cronache tramandate nel corso dell’800 da autori vari e più o meno di parte. Peccato che il perdurare dell’emergenza epidemica abbia smorzato possibili iniziative locali in tal senso, specie da parte dei due Comuni interessati.
In queste pagine riproponiamo testimonianze varie riferite appunto a quei fatti, testimonianze che, come accennato, ovviamente furono condizionate dallo schieramento a favore dei rivoluzionari palermitano-sancataldesi o dei lealisti nisseni in quei moti del 1820.
Rileggere quell’anno vuol dire, innanzitutto, fare un breve passo indietro, cioè a quando Ferdinando Borbone, estendendo alla Sicilia la nuova legge organica sull’amministrazione civile, divide l’isola in sette Valli amministrate da altrettante Intendenze. Caltanissetta è – dal 1818 - sede di Intendenza e quindi capovalle (capoluogo) e sede delle relative, importanti istituzioni. La città, così elevata di rango, si ritiene pertanto fedelissima al Borbone in cui onore erige una statua in piazza. Una fedeltà che doveva pertanto essere punita dai rivoluzionari siciliani.
Sui moti antiborbonici del 1820 innescatisi nel Napoletano, la nuova costituzione concessa dal Re, la sollevazione palermitana, ecc., rimandiamo ai libri di storia. Sui fatti nisseni, come detto, hanno scritto molti autori, locali e non, oltre ai resoconti riportati dal giornale palermitano dell’epoca La Fenice, schierato però dalla parte della Giunta rivoluzionaria istituita a Palermo di cui era l’organo di informazione.

Iniziamo la rassegna delle testimonianze proprio da questo giornale che nelle Notizie interne del Foglio estraordinario n. 7 del 19 agosto 1820 riportava il Rapporto della battaglia di Monte Babbaurra e presa di Caltanissetta. C’è, dunque, la cronaca di quella battaglia, vista dalla parte dei rivoluzionari e di conseguenza con ripetute lodi per alcuni dei loro protagonisti a cominciare dal comandante in capo della spedizione punitiva contro Caltanissetta, Salvatore Galletti principe di Fiumesalato, di origini sancataldesi. Tant’è che in appendice viene anche inserito un Avviso in cui quei protagonisti vengono dichiarati benemeriti della patria. Quello di Babbaurra fu il primo scontro armato tra i due schieramenti, le cui fasi si svolsero dall’11 al 12 agosto, che precedette l’attacco a Caltanissetta da parte degli uomini del Galletti e il conseguente saccheggio.
Questi alcuni brani del citato Rapporto che così iniziava: La mattina del giorno 11 corrente agosto un distaccamento di circa 100 uomini Marianopolitani e Villalbesi unitamente a pochi di S. Cataldo ardenti d’indipendenza e libertà, senza misurare il pericolo, e la disuguaglianza del numero, e della posizione vantaggiosa del nemico, attaccarono l’importantissimo posto della Montagna di Babbaurra a mezzo miglio da S. Cataldo, e dopo molte prove di straordinario valore giunsero a cacciarne i Caltanissettesi, i quali conoscendo il vantaggio di quella posizione, procuravano a tutta forza di mantenerla. Il Col. Comandante Principe di S. Cataldo conoscendo l’importanza di quell’acquisto si die’ premura di conservarlo, ponendovi a guardia circa a 200 uomini, fra i quali quei prodi medesimi ch’erano stati i primi ad affrontare il pericolo.
E ancora: Circa un’ora dopo il sorgere del sole del giorno 12 quei di Caltanissetta spedirono a parlamentare il padre Reggente Anzalone, Domenicano, al quale s’imposero le due seguenti condizioni, primo che fossero dati a discrezione nel corso di quel giorno medesimo l’Intendente Gallego, il Presidente Tumminelli ed il Tenente Col. Chitardi (verosimilmente Guittardi, n.d.a.) istigatori di quella rivolta. Si era chiesto lo stesso della persona di Benintendi, ma questi come più macchiato di colpe esecrande erasi prima fuggito, che dassero nel termine sudetto la somma di onze 20.000, la quale fu anche poi ridotta a 16.000. Stavano per distendersi questi articoli preliminari, ai quali annuiva il Parlamentario, quando quei di Caltanissetta, mancando ad ogni legge di civilizzazione e di guerra, con esempio straordinario di perfidia, forti di 400 e più uomini attaccarono furiosamente alla sprovvista il monte Babbaurra, e forzarono quell’avamposto ad abbandonare la sua posizione.
Si grida dunque al tradimento perpetrato dai nisseni, ma c’è subito la risposta degli uomini del Galletti agli ordini del tenente colonnello Orlando e del maggiore Palmeri, che impiegano l’artiglieria e riconquistano la posizione, da dove partono poi due colonne in direzione della città con gli armati nisseni che ripiegano a sua disperata difesa. È l’inizio di un attacco che avrà conseguenze terribili.
Così concludeva La Fenice il resoconto di quei primi eventi: Lode eterna a questi bravi indipendenti Siciliani, a cui sarà sempre riconoscente la patria, mentre la penna degli Scrittori ne consegna i nomi alla memoria dei posteri! Il Colonnello Comandante Principe di San Cataldo si è meritato in questa memoranda azione tutti i titoli di coraggioso e sperimentato Generale. (…). Si contano sino a 300 i nemici morti in battaglia, mentre i nostri non giunsero a 50. Il numero però dei feriti fu considerevole da ambe le parti.
Questa, invece, una testimonianza di parte nissena, con particolare riferimento alla brutalità con cui gli uomini di Galletti misero a ferro e fuoco la città, con devastazioni susseguitesi per molti giorni. Si tratta di una lunga narrazione dovuta al canonico nisseno Michele Segneri e affidata a un manoscritto da lui compilato nel 1846, rimasto inedito fino al 1922 quando un altro canonico nisseno – lo storiografo Francesco Pulci – lo pubblicò, commentandolo, in un volume dell’Archivio Storico Siciliano, edito dalla Società Siciliana di Storia Patria di Palermo, di cui era socio. Il Pulci intitolò quel suo saggio Un doloroso ricordo centenario per Caltanissetta ed una memoria inedita dell’Anno dell’Assassinio (1820).
Fino ad allora erano stati molti gli scrittori, locali e non, a trattare quegli eventi, ma nessuno aveva mai riportato i dettagli del sacco di Caltanissetta come aveva appunto fatto il Segneri il quale – spiegava Pulci – poté scrivere con competenza, avendo attinto notizie da quelli che furono la magna pars di quei tristissimi giorni.
Nella premessa al manoscritto, il Pulci riepiloga la situazione creatasi in Sicilia e culminata nell’insurrezione di Palermo contro i Borbone, ricordando la nascita della Giunta provvisoria rivoluzionaria presieduta dal cardinale Pietro Gravina e con nove baroni dell’aristocrazia palermitana, la decisione di punire le città rimaste fedeli al sovrano, l’organizzazione della spedizione contro Caltanissetta alla guida del principe Galletti reclutando uomini dalle patrie galere e mercenari a caccia di bottini, le già citate richieste della Giunta rivolte ai lealisti nisseni.
Dopodiché, spazio alle parole del Segneri che ricorda la vana attesa dei nisseni del soccorso delle truppe regolari, per cui gli assassini si affrettarono prima a dare il fuoco alle campagne di Caltanissetta, bruciando molti cereali e casine rurali. Mentre si commettevano questi orrori, i Caltanissettesi vedendosi nel prossimo pericolo di soffrire un generale assassinio, (…) fecero una pubblica processione di penitenza, portando per le strade della città il sacro Vessillo del loro protettore S. Michele Arcangelo e pregando Dio e S. Michele principe e capo della celeste milizia, che preservasse la sua città da questo imminente flagello.
Frattanto l’intendente Gallego l’11 agosto si dà alla fuga facendosi scortare dai soldati di linea rimasti fino ad allora a disposizione, il che induce a fuggire anche molta gente dalla città ormai sguarnita e alla cui difesa rimangono solo 400 uomini armati. Ed è il giorno, come già riportato, in cui la "guerra" registra i primi scontri a Babbaurra, col Galletti che stabilisce il suo quartier generale a San Cataldo.
Ecco ancora il Segneri descrivere i momenti più crudi dell’attacco a Caltanissetta: Agli 11 di agosto i pochi Caltanissettesi armati stavano nella città per custodirne l’interno, onde gli assassini non trovarono ostacolo in Babbaurra e si avanzarono direttamente per investire Caltanissetta. Si disposero a semicircolo, precedevano i cannonieri, portando i cannoncini da campagna, e tutti gli altri a piedi facevano un circolo che cominciava dalle Croci di S. Anna e continuava sino a sotto il Convento di S. Antonio di Padova. Nel largo di questo Convento i Caltanissettesi avevano collocato i loro cannoncini di legno e vedendo avvicinare gli assalitori diedero fuoco e ne uccisero alcuni pochi, ma quei che sapevano essere i cannoncini di legno, gli animarono a non temere, e infatti dopo tre o quattro colpi i cannoncini creparono. Gli artiglieri degli assassini vedendo uccisi alcuni de’ loro compagni, più si arrabbiarono e replicarono i colpi de’ loro cannoni di bronzo; e quanto più si accostavano, tiravano colpi di schioppi e moschettate a centinaia. I Caltanissettesi, dopo aver fatto qualche resistenza, vedendo che il loro numero era piccolo e gli assassini a migliaia, risolvettero di fuggire per la parte orientale della città che non era assediata da nemici, e prima di mezzanotte la città era a discrezione degli assassini.
E qui il Segneri si dilunga nelle malefatte degli uomini del Galletti: Quindi riuscì facile agli assassini aprire tutte le porte, i magazzini, i burò, i tavolini, e prendere oro, argento, denaro, biancheria, stoffe, drappi, tappezzerie e quanto trovavano di più prezioso e facile a portarsi. Entrando nelle cantine, bevevano vino fino all’ubriachezza e poi lasciavano scorrere il vino per terra; fracassavano i riposti d’olio, buttando l’olio per terra. Intanto, risoluti di rovinare anche la città e le fabbriche, bruciarono moltissime case, palazzi (principalmente nel quartiere della Grazia), pagliere, locande e fondachi, rompevano tutti i cristalli, gli specchi, le vetrate, le lastre de’ balconi e rovinavano tutti i mobili di legno. In quella notte si udivano da per tutto gridi, urli, bestemmie orribili, fracassi, incendi e rovine, pianti, spaventi, uccisioni, ferite, bastonate, risse anche fra gli stessi assassini nel dividersi il bottino; (…) quando poi uscivano da Caltanissetta per dividersi le cose rubate, si uccidevano tra di loro, e si videro per otto giorni non solo le strade della città, ma anche le campagne coperte di cadaveri insepolti e putrefatti. In quella notte (…) fu aperto l’Archivio della Casa Comunale, la casa dell’intendente, le banche dei Notai e furono bruciate tutte le scritture, i titoli e le carte, affinché si perdesse la memoria de’ crediti, de’ testamenti, de’ legati pii, de’ decreti e dei diplomi.
E ancora: Gli assassini (…) in quella notte fracassarono e demolirono la statua di Ferdinando I, vomitando mille bestemmie e parole oscenissime. Entrarono anche ne’ Conventi e nelle Chiese, togliendo tutto ciò che v’era di più prezioso: rapirono i vasi sacri di oro e di argento. Le Chiese de’ Conventi de’ PP. Riformati, Benedettini e Carmelitani furono l’oggetto del loro furore. (…) Essendo state aperte dagli assassini tutte le case, i magazzini, i palazzi e le botteghe d’ogni genere nella mattina e nel giorno 23 e 24 agosto, i poveri prendevano tutto ciò ch’era rimasto, tele, arazzi, panni, frumenti, vino, olio, legumi, casse ed altre cose. Intanto i palazzi, le locande e moltissime case andavano in fiamme ed accrescevano l’immenso calore dell’ardente stagione. (…) Tutto era disordine e confusione, le sole case dei poveri non furono toccate.
Altre testimonianze di parte nissena le traiamo da un documento datato 25 gennaio 1821, quindi cinque mesi dopo quei fatti. Si tratta dell’Indirizzo dei Caltanissettesi al Parlamento di Napoli in cui venivano appunto denunciate le tragiche conseguenze patite dalla città a seguito della spedizione Galletti, una città che ora reclamava i necessari risarcimenti. Il documento, molto lungo, fu presentato al Parlamento partenopeo a firma del canonico Liborio Di Forti, di Francesco Conte Adonnino e Francesco Castrogiovanni, cittadini appositamente incaricati dal Comune. Al di là dell’effettivo danno subìto dalla città, logico pensare che i particolari del reso- conto da loro presentato avessero i toni i più drammatici possibile così da ottenere il massimo della giustizia.
Ed eccoci così tornati nel pieno dell’azione degli assalitori che incominciarono a devastare tutte le case di campagna, spogliandole interamente, e perfino degli strumenti campestri e di ogni genere di animali, e mettendovi fuoco per colmo di loro feroce scelleratezza. (…) inesprimibili le sevizie, che sperimentarono avverso molti poveri agricoltori, che rifugiatisi nelle loro campagne onde trovare un asilo furono assaliti. Molti fra questi furono barbaramente uccisi senza alcun riguardo alla loro età, e molti altri furono malmenati e condotti innanzi al commissario generale in S. Cataldo, ove furono racchiusi in orrido carcere.
Man mano avvicinatisi alla città dalla parte della Grazia, ecco adesso il locale convento obiettivo dei predatori: Atterrarono al primo ingresso le porte del convento de’ padri Agostiniani Scalzi ove, entrando furiosamente, scannarono tutti quegl’infelici, che ivi erano asilati. Quali enormi scelleraggini non commisero a danno di quei frati, che spogliarono non meno di quel poco mobile, che ognun di essi possedeva, ma bensì di tutti i generi di loro sussistenza, e perfino di tutti i sacri arredi di oro e di argento! L’incendio del quartiere di S. Maria delle Grazie abitato per lo più da famiglie di pacifici agricoltori, l’incendio di alquanti palazzi e case ragguardevoli di pubblici funzionari e di non pochi particolari fu l’opera più segnalata di quel vandalismo.
E, tra i tanti, c’è un particolare davvero raccapricciante inserito in questo rapporto, e cioè che molti innocenti bambini lasciati sui letti dalle madri attonite e fuggitive a quel nero spettacolo, ed avvolti ne’ lenzuoli, che li coprivano e che furono anche involati, moriron soffocati e furono indi rinvenuti, allorché quegli scellerati giunti ai loro paesi passavano per così dire a rassegna il bottino di loro parte.
Ma la violenza degli invasori non si ferma qui, visto come prosegue il documento: Non sono poi esprimibili la strage e le depredazioni commesse (…) la cui rimembranza sarà sempre presente alla memoria di quegl’infelici cittadini, che testimoni occulti rimasero del più atroce spettacolo! Molti di costoro furono scannati inermi nelle proprie case e nelle chiese, ove eransi rifuggiti, sperando che la santità del luogo preservati gli avesse dalla morte (…) e per colmo della più mostruosa empietà neppure ebbero salvezza alcuni infelici che, avendo scelto per asilo le tombe, si occultarono entro gli avelli tenendosi ivi chiusi, come i morti, ammucchiati coi cadaveri e con gli scheletri. Anche questi luoghi sacri alla venerazione de’ più scellerati, ove non si scende senza ribrezzo, non furono risparmiati: ivi anzi la morte incontrarono di fatto tutti coloro che al di lei asilo ricorsero, dissimulando la vita per sottrarsi al furore di quei cannibali.
Stando a questo rapporto è da ritenersi più che appropriata, dunque, la definizione di Anno dell’Assassinio tramandata da alcuni storici, e non solo nisseni, in riferimento a quel tragico 1820. La riporta, ad esempio, Giuseppe Falduzza nel suo Programma di associazione alla storia documentata della città di Caltanissetta (1867), in questo contestato però dal politico e scrittore sancataldese Giuseppe Amico Medico autore del libretto La scoperta di Caulonia di Sicilia (1872) dedicato a Nicolò Galletti e Platamone, discendente del principe di Fiumesalato che aveva guidato la spedizione contro i nisseni.
In questo clima costellato di uccisioni e saccheggi si inserisce la vicenda con protagonista un illustre nisseno del tempo, Mauro Tumminelli, all’epoca presidente del Tribunale Civile di Caltanissetta. Il Tumminelli, sia per tale carica e soprattutto per il prestigioso ruolo precedentemente svolto nel contesto dell’elevazione della città a capoluogo di provincia da parte del governo borbonico, era uno dei quattro esponenti che il Galletti aveva chiesto gli fossero consegnati, unitamente ad una ingente somma di denaro, per risparmiare la città dal suo attacco, ma ne aveva ricevuto un fermo rifiuto.
Durarono a lungo le rappresaglie degli invasori, alcuni dei quali – ha tramandato lo scrittore nisseno Biagio Punturo - si disseminavano per le campagne dei dintorni, incendiavano le casine, distruggevano i prodotti del suolo; altri, con a capo il famigerato brigante, scorridore di campagne, Giacinto La Mattina, e Nicola Mancuso alias "Cipolla" e un certo Pinello, nel giorno 24 agosto assaltavano l’Ospizio dei pp. Cappuccini dell’Abbadia di S. Spirito, ove si era loro fatto credere di essere stata ivi depositata da alcuni profughi caltanissettesi la somma di Onze 36.000 (pari a Lire 459.000), punto non risparmiando né le invettive, né le minacce di morte, né i maltrattamenti a quegli spaventati frati, né le ruberie di diversi involti di lana e di biancherie, che varie famiglie nissene, credendo sicuro quel luogo sacro, avevano ivi portati a nascondere e dei quali caricavano diverse vetture, e catturavano l’illustre concittadino Mauro Tumminelli che ivi era rifugiato.
L’illustre giurista avrebbe poi tramandato quella brutta esperienza con la testimonianza riscontrabile nei Cenni biografici intorno al Presidente Mauro Tumminelli (Palermo, Tipografia Lo Statuto, 1900). Questi alcuni passaggi: Io mi ero rifugiato nell’Ospizio dei Padri Cappuccini dell’Abbazia di Santo Spirito nel giorno 13 agosto 1820. Dopo l’assalto e il saccheggio del giorno 12 agosto io scappai nascostamente dal Convento di S. Domenico, dove mi rifuggii la sera precedente in compagnia del Sindaco del Comune e di altri tre gentiluomini (…) giunsimo all’Ospizio dei Padri Cappuccini dell’Abbadia di Santo Spirito (…). Ivi fummo ricevuti con ospitalità e l’indomani, licenziatisi gli altri miei compagni di fuga, restai solo in mezzo a quei buoni Padri per il discorso di 12 giorni circa. Quando irrompono a Santo Spirito, gli uomini del Galletti si danno a perquisire quei locali, minacciando di morte i frati e facendo incetta più che altro di lana e biancheria, dopodiché costringono Tummi- nelli e il padre Superiore a seguirli a San Cataldo. Qui il giurista viene condotto da Rosario Vassallo, uomo del principe, che comunque mi diede coraggio e mi collocò in uno stanzino in sala ove fui sempre guardato a vista e soprattutto non permise che io fossi stato condotto nelle prigioni di S. Cataldo. Però mi obbligò a partire per Palermo scortato da sei persone armate.
A Palermo Tumminelli viene condotto dal principe di Villafranca, a capo della Giunta provvisoria di governo, che gli si rapporta con toni di rispetto e provvede anche a procurargli ospitalità presso la Casa dei Padri Crociferi, ai Quattro Canti, dove il "prigioniero" rimarrà dal 4 settembre al 4 ottobre. Tumminelli farà ritorno a Caltanissetta solo ai primi di novembre, al ristabilimento dell’ordine pubblico.
Ma ritorniamo nuovamente alla situazione a Caltanissetta in mano ai predatori, che la vogliono annientare del tutto. E infatti il Galletti scrive alla Suprema Giunta di Palermo per farsi inviare quattro cannoni e venti casse di munizioni che, ai primi di settembre, vengono trasportati sul monte San Giuliano dove vengono fatte sven- tolare le insegne dei rivoluzionari. L’intenzione è appunto quella di radere completamente al suolo la città e a seminarvi sale, come i suoi uomini vanno ripetendo in tono minaccioso all’atterrita popolazione superstite. E a riprova che questa non è solo una minaccia, vengono addirittura inviate ai vicini Comuni lettere circolari, annunziate dai banditori al suono dei tamburi, con cui si invitano picconieri e guastatori a portarsi in città per contribuire a quell’opera di distruzione totale.
Ma ecco finalmente arrivare le truppe regolari in soccorso della città. È la mattina del 7 settembre 1820 quando – riportiamo ancora le parole del canonico Segneri – il Tenente Generale Costa con una truppa di circa cinquemila soldati di linea, guidato da circa tremila Caltanissettesi, che conoscevano le strade, andò ad assalire i briganti sin sopra la montagna di S. Giuliano; i soldati di Costa tirarono fucilate anche contro i cannonieri e ne uccisero più di duecento; tutti gli altri fuggirono per le campagne precipitosamente (…). Uccisi o sbandati i briganti, il Ten. Generale Costa fece portare i quattro cannoni, le venti cassettine di munizioni e le quattro bandiere gialle nella piazza di Caltanissetta, ove entrò col suo esercito come trionfante e andò ad alloggiare nella casa del cav. D. Francesco Guittardi» (l’odierno palazzo Caglià vicino la Badia, n.d.a.).
Possono così rientrare in città, tra gli altri, il sindaco e i decurioni, compreso il barone Filippo Benintende, che si mettono subito all’opera per ripristinare un minimo di normalità. Lodevole soprattutto l’impegno del Benintende che istituisce una Deputazione di pubblica sicurezza, da lui presieduta, prende contatti con i Comuni vicini per farsi mandare viveri e provviste per la popolazione, fa ripristinare la conduttura dell’acqua, dispone il seppellimento dei cadaveri in città e la cremazione di quelli rimasti sul monte San Giuliano.
Ma è anche tempo di rimettere mano alle armi contro gli uomini del Galletti rifugiatisi a San Cataldo e che si sa intenzionati a rinnovare gli assalti al capoluogo. Infatti già il giorno dopo, 8 settembre, Costa guida contro di loro le sue truppe e circa tremila nisseni, che assalgono i briganti, ne uccidono numerosi mentre altri si sbandano, e recuperano alcuni oggetti sacri del loro bottino, compreso il grande Ostensorio che era stato trafugato dalla Chiesa Madre. Nei giorni seguenti anche il governo provvede a inviare soccorsi e nuova truppa a Caltanissetta.
Il 23 settembre parte una spedizione di cinquemila armati contro San Cataldo ed una seconda il 30 settembre per disperdere i ribelli rifugiati e recuperare altro bottino. Per fare definitivamente piazza pulita, il 14 ottobre c’è un’ultima spedizione contro quelli ancora rimasti. Tali spedizioni coincidevano con la giornata di sabato, tant’è che sarebbero state tramandate come li sabatini di lu 1820.
Ma c’è da dire che anche gli stessi abitanti di San Cataldo, che finora avevano dovuto subire di prepotenza la presenza degli uomini del Galletti, ormai non vogliono più averci a che fare, anche perché un editto governativo li diffida dal continuare a dar loro ospitalità, pena il finire sotto processo in un tribunale militare da installare nella stessa San Cataldo. E così, sconfitti negli scontri armati e ormai fortemente avversati dai locali, gli ultimi superstiti di quella che la stampa rivoluzionaria aveva definito la Grande Armata, si disperdono per le campagne o riparano in altri paesi. Una deputazione di cittadini sancataldesi si reca pertanto a Caltanissetta per chiedere di cessare le spedizioni e viene ricevuta dal Benintende, e sono all’insegna della pace le parole che il barone rivolge loro.
Ma cosa costò ai nisseni la spedizione Galletti? Le cronache tramandano un bilancio finale di 45 morti "ufficiali", 83 case bruciate e un danno complessivo di 223.542 onze, 19 tarì e 17 grana, all’epoca una cifra enorme. Ma non si teneva conto, ovviamente, dei danni "alla distanza", come ad esempio lo scarsissimo raccolto che si sarebbe avuto l’anno dopo per la mancata coltivazione delle terre dovuta sia alla scarsezza di denaro, sia perché infestate dagli uomini del principe.
Seguirà una lunga fase giudiziaria per accertare i responsabili del sacco di Caltanissetta, molti individuati, arrestati e richiusi nel carcere di Caltanissetta, molti altri resisi latitanti. E anch’esso latitante viene dichiarato – e siamo già al novembre 1823 – il principe Salvatore Galletti di Fiumesalato nel frattempo riparato a Malta assieme alla famiglia e al suo seguito.
Rimarrà un detto popolare a ricordare quegli attacchi e contrattacchi che si susseguivano tra Caltanissetta e San Cataldo in quel drammatico 1820: Curri Micheli ca veni Catallu, e viceversa Curri Catallu ca veni Micheli, un detto che scomodava i santi patroni delle due città.

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