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Le Miniere e l'Istituto Luce

San Cataldo > L'epopea delle miniere

L'EPOPEA POTASSICA DI SAN CATALDO
Fu negli anni Cinquanta dello scorso secolo che un Piano Quinquennale del governo regionale consentì l'ingresso di grandi imprese nazionali nel settore dell'industria, a beneficio principalmente dell'ENI.
In un clima di pressioni politiche incrociate, nell'isola sbarcarono allora altri importanti gruppi italiani come Montecatini, Edison ed Italcementi; a loro favore, l'Istituto Regionale per il Finanziamento alle Imprese in Sicilia ( IRFIS ) concesse un totale di 21 miliardi e 910 milioni di lire, quasi la metà delle erogazioni stabilite a tutto il 31 dicembre del 1957.
In questo contesto alcune aree della Sicilia furono protagoniste di una "rivoluzione industriale" mirata in primo luogo a sfruttarne le risorse petrolifere e minerarie: un'attività a medio-lungo termine che nel giro di pochi decenni si sarebbe esaurita senza concedere duraturi benefici alle economie locali.
Fra gli esempi di questa politica di sviluppo vi fu la creazione di stabilimenti per l'estrazione della kainite e la produzione di fertilizzanti potassici fra San Cataldo e Campofranco, in provincia di Caltanissetta.
L'attività venne avviata dal Gruppo Montecatini dopo la scoperta dei giacimenti di kainite a San Cataldo nel 1953, con un investimento di oltre 15 miliardi di lire.
Negli anni seguenti, gli impianti nisseni diventarono la principale fonte di produzione di sali potassici in Italia, con un picco di 785.000 tonnellate nel 1962, pari al 73 per cento dell'intero ricavato nazionale.
Per questo motivo - oltre che per evidenti ragioni promozionali del Gruppo Montecatini - San Cataldo e Campofranco meritarono in quegli anni attenzioni giornalistiche e documentarie come quelle riproposte nel post da Reportage Sicilia.
L'articolo in questione venne pubblicato dal mensile del TCI "Le Vie d'Italia" nel luglio del 1962, con il titolo "La Sicilia ha il potassio".
Il giornalista milanese Giuseppe Tarozzi ed il fotografo Carlo Anfosso non elencarono soltanto i numeri e aspetti tecnici della frenetica attività di estrazione e lavorazione della kainite.
Il loro racconto fu ricco infatti di notazioni sociologiche e di costume su una zona della Sicilia che cinquant'anni fa, allora più di oggi, era ai margini delle attenzioni del Paese.
L'attacco di Tarozzi - cronista proveniente da una realtà milanese in piena ascesa da boom economico, chiarisce subito l'approccio all'isola di quel periodo, ostile e disperante:
"Un'altra volta in Sicilia, un'altra volta questa terra che da subito, fin dal primo contatto, dà di sé una rappresentazione tragica, dura, violenta. Non fosse altro per i colori così accesi, netti, senza sfumature. Oppure per l'aspetto della gente del popolo, sempre chiuso e taciturno. O per i vestiti dei contadini, di panno nero, la coppola calata sulla fronte, l'aria distratta, svagata dietro ai propri pensieri. Un'altra volta la Sicilia, dunque. Alla ricerca dei cambiamenti, del progresso, del risveglio economico e industriale. E un'altra volta a contatto con la miseria più totale che ci sia in questa nostra dolente parte d'Italia...".
Il viaggio di Tarozzi verso le arse campagne nissene ricorda ancora le allora recenti pagine del paesaggio isolano del "Gattopardo":
"Fa caldo, la campagna è addormentata sotto il sole, il verde dei prati e degli alberi inclina a tinte smorzate. 'Ancora poche settimane di verde' dice chi ci accompagna, 'e poi tutto diventerà giallo, bruciato dal sole. Sarà come un'ossessione'.
La macchina corre per una strada tutte curve e buche. Una strada stretta e smangiata agli orli, dove l'asfalto sparisce e lascia riaffiorare il vecchio fondo da 'trazzera', da strada borbonica. E così il traffico viene rallentato, l'economia dei vari centri ne soffre, i paesi rimangono troppo isolati fra di loro. E, tanto per fare un esempio diretto, tra Palermo e Caltanissetta, due città che distano appena centocinquanta chilometri, ci si deve impiegare più di tre ore.
E Caltanissetta continua a essere, anche per questo, un dimenticato, povero, squallido centro della provincia italiana.
Di fronte a noi il paesaggio si apre e si chiude come un ventaglio. A volte è una sfilata di dossi brulli, aspri scoscesi, tagliati a colpi secchi e lunghi; a volte un susseguirsi di teneri e ondulati prati che si muovono sotto il vento; a volte la strada si infila, come un lungo serpente, fra alte pareti di grigia pietra.
In giro non si vede anima viva, i campi sono come abbandonati. Poi, ogni quindici o venti chilometri, si incontrano dei contadini, a gruppi di tre o quattro, generalmente su dei magrissimi muli, ma anche a piedi.
Oppure branchi di pecore, con un pastore e qualche bambino, o delle capre. Il traffico è assai ridotto, e così c'è un gran silenzio, solo questa campagna deserta, e poi ancora campagna. Anche i paesi sono distanti fra di loro.
Non esiste, come al nord, la classica sequela di piccoli centri che, ogni cinque o dieci chilometri, costellano la campagna di case e tetti e campanili. Qui le distanze si fanno più grandi, e fra un paese e l'altro corrono almeno trenta o quaranta chilometri, e i centri sono grossi ( dai cinque ai ventimila abitanti ) e tutti miseri, con case fatte di tufo, o di pietra grigia, senza colori, coi tetti simili ai muri, con le persiane grigie anch'esse e, quasi sempre, chiuse. E fiori sui davanzali non se ne vedono, e la piazza del paese non ha la classica fontana e non c'è il monumento ai caduti. Solo qualche grande palazzo barocco, ormai cadente, dove una volta ci venivano i ricchi, da Palermo, per la caccia, oppure a passarci quei trenta giorni di settembre...".
In quell'immobile paesaggio siciliano, nella secolare arretratezza dei suoi costumi e della sua gente, Giuseppe Tarozzi individuò negli impianti della Montecatini il segno di una nascente modernizzazione, con annesso villaggio fornito di tutto, dalla chiesa alla scuola e addirittura campo di calcio e campo da tennis. Nel villaggio vivevano le famiglie dei caposquadra e dirigenti, quasi tutti provenienti dal centro e nord Italia.
Basta che un contadino, uno dei tanti contadini, alzi gli occhi al cielo e guardi la teleferica San Cataldo-Campofranco che trasporta la kainite dalla miniera allo stabilimento di produzione, e si capisce che questo è un simbolo, e molto chiaro, di quello che sta succedendo da queste parti. Tra San Cataldo e Campofranco ci sono trenta chilometri di strada, ma con la teleferica la distanza è di diciotto chilometri.
La teleferica che poggia su 150 piloni trasporta 2.800 tonnellate di kainite al giorno. Il carrello trasportatore fa tre metri al secondo. Un carrello porta 1.200 chili, e ognuno di questi carrelli parte distanziato di 28 secondi dall'altro.
Perciò a Campofranco arrivano ogni 28 secondi 1.200 chili di kainite, che vengono immessi immediatamente in lavorazione. Per compiere i suoi diciotto chilometri un carrello impiega un'ora e 40 minuti.
Questo vuol dire la teleferica; ecco cosa vuol dire la miniera di San Cataldo, dalla quale si estraggono dalle 3.300 alle 3.500 tonnellate di kainite al giorno.
Già 630 operai vi lavorano, e ogni operaio in media guadagna sulle 80 mila lire al mese, una cifra abbastanza buona per un posto dove la vita non è certamente molto cara, e dove la mensile del reddito si aggira - e non sembrerebbe neppure vero - sulle 15 mila lire pro capite.
L'amministrazione della miniera, così, immette ogni mese dai 60 ai 65 milioni fra paghe e stipendi agli operai e agli impiegati. E sessanta milioni sono tanti, tantissimi, per un mercato dei consumi che era fra i più bassi non solo d'Italia, ma della Sicilia...".
Il reddito della miniera di San Cataldo - sottolinea ancora Tarozzi nel suo reportage - fece aumentare da uno a tre le banche e da una a sei le macellerie.
Nelle aule delle due scuole elementari e di una media unificata però, "mancano i vetri alle finestre, il materiale didattico è assolutamente insufficiente, non c'è riscaldamento interno, tanto che è possibile vedere i piccoli alunni, d'inverno, recarsi a lezione con il loro scaldino di rame o di ferro e tutti infagottati nelle coperte e negli scialli; i servizi igienici sono in condizioni primordiali e assai poco 'igienici' per la frequente carenza d'acqua".
L'estrazione della kainite insomma di per sé non riusciva a garantire lo sviluppo di San Cataldo, dove le abitazioni non offrivano una vivibilità migliore rispetto a quella delle scuole e dove le attività agricole producevano scarse quantità di grano e fave.       
"Finito il nostro giro nella miniera - considerò infine Giuseppe Tarozzi -  siamo tornati a San Cataldo. Era come fare un tuffo nel passato. Quelle case, quelle strade del paese tutte rotte, sconnesse, quell'aria di depressione e di abbandono, stridevano a confronto di quanto avevamo appena visto.
La Montecatini, l'ENI, e tutte le altre industrie che sono venute qua a portare lavoro e fabbriche e concetti nuovi, non bastano.
Bisogna anche la Regione e lo Stato intervengano decisamente. Che si creino le infrastrutture, che si elimino gli sprechi, che si aiuti l'azione dei grandi complessi sveltendo le pratiche burocratiche, costruendo strade, alberghi, scuole, acquedotti. Che si inquadri il tutto in un'azione unitaria, organizzata, guidata.
L'iniziativa privata e quella pubblica non possono battere in Sicilia strade diverse...".
La visione lungimirante e pragmatica di Giuseppe Tarozzi sul futuro di quest'angolo di Sicilia, per vari motivi, non avrebbe trovato un compimento.
Dopo la fusione tra la Montecatini e la Edison - nel 1966 - le attività estrattive a San Cataldo furono oggetto di accordi con la Sali Potassici Trinacria e con l'Ente Minerario Siciliano.
Nel 1978, la Montedison abbandonò gli impianti e la loro proprietà passo di mano ancora sino al luglio del 1988 alla Ispea, l'Industria di Sali Potassici ed Affini di Palermo.
Da allora, le miniere e le gigantesche attrezzature per il loro sfruttamento vivono in stato di totale abbandono e degrado.
L'unica appendice ancora viva di quell'epopea industriale è rappresentata da un'inchiesta della magistratura nissena sulla presenza degli scarti di lavorazione nei pressi della miniera di Bosco Palo.
Entrato in servizio nel giugno del 1964, di questo giacimento rimangono quattro milioni di metri cubi di sali di potassio che al contatto con la luce solare e con i fulmini sono diventati radioattivi.
Le operazioni di bonifica non sono mai state avviate.
Di una delle più grandi attività minerarie d'Europa, insomma, non sono rimasti che gli impianti corrosi dalla ruggine ed i danni ambientali provocati dalla pessima gestione degli scarti di lavorazione: la radicata incapacità siciliana di promuovere il proprio sviluppo, riproposta e ben visibile oggi nelle campagne tra San Cataldo, Serradifalco e Campofranco.


L'Istituto Luce è la più antica istituzione pubblica destinata alla diffusione cinematografica a scopo didattico e informativo del mondo. Nato in Italia nel 1924, l'Istituto Luce diviene ben presto un potente strumento di propaganda del regime fascista.
L'Istituto partecipa inoltre alla produzione e diffusione di film e documentari destinati alle sale cinematografiche. Ha sede a Roma.

Reportage sulla nostra città sono stati effettuati dall'Istituto Luce, per documentare le miniere del territorio:

Clicca sotto per vedere il:
Numero unico sull'industrializzazione della Sicilia 11/05/1962;

Miniera Bosco da la "La settimana Incom 1962"


e sulla  costruzione dei nuovi alloggi di contrada "Macello", evento storico e significativo che ha fatto d'esempio, come laboriosità, alla Sicilia intera di quel tempo.

Clicca sotto per vedere il reportage:
San Cataldo un male antico rode le fondamenta delle case 02/1959;
Quartiere Macello da il "Caleidoscopio Ciac 1959"

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