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Curiosità

San Cataldo > Folclore e tradizioni

Carnevale Sancataldese degli anni 60

Non tutti sanno che:

"Li Cannola", denominazione data alla fontana di via Speranza, era chiamata "la fontana del Principe", proprio perchè era stata fatta costruire dal fondatore del Paese.

L'energia elettrica, entrò per la prima volta nelle case dei sancataldesi, nel 1910 e veniva prodotta dal mulino "La Grazia", situato dove adesso vi è la Clinica Regina Pacis (Maira). Poco dopo produsse energia, anche la Società "Vittoria", la quale produceva anche ghiaccio, che, non esistendo allora i frigoriferi, era l'unico sistema per conservare cibi deteriorabili e per conservare gelati e utilizzare lo stesso per usi terapeutici.

Il Servizio Postale Statale, fu istituito per la prima volta nel 1860. Prima i corrieri privati andavano a piedi o a cavallo ed erano pagati alla consegna dal destinatario, visto che ancora non si usava il francobollo.

Il Circolo di Compagnia, detto anche
"Casinu di li Galantumini", è il più antico sodalizio costituito a San Cataldo nel 1839. Club rigorosamente chiuso, era frequentato esclusivamente da soci proprietari terreni  o fondiari di un certo livello e solevano portare il cappello. Nel circolo si conversava, si giocava a carte e con giochi d'azzardo stile "zecchinetta", e in quei locali, più di uno rimase sul lastrico, giocando e ubriacandosi di "liquore Strega", anche per tutta la notte. Un anno, un farmacista ci rimise la farmacia, mentre un altro anno, il palazzo del principe Galletti, cambiò proprietario, avendolo vinto a carte, un maestro elementare.

Il
cimitero di San Cataldo fu costruito nel 1836 e fu inaugurato nel 1839. Prima di allora le salme venivano inumate fuori e dentro la città, nei pressi delle chiese, mentre ancor prima erano lasciate come pasto di uccelli e cani randagi.

Nel 1938, entrò in attività il
"Cinema "Marconi", che subentrò all' "Arena della Vittoria", aperta nel 1927, ma attiva solamente nei mesi estivi.

Durante la 2a guerra mondiale le luci delle strade, nella notte, erano spente. Gli operai erano soliti, soprattutto il sabato sera, andare nelle botteghe di vino per dimenticare la stanchezza, così un bicchiere tirava l'altro. Alla fine quando andavano a casa cantavano le cose più strambe, incutendo paura ai bambini e alle donne. Essi venivano chiamati
"Cantalanotti".

Oltre alle manifestazioni tradizionali della Pasqua sancataldese, nella nostra città in tempi non recenti, vi erano delle rappresentazioni curiose ormai quasi tutte in disuso, come
"A CURSA di li CAVADDUZZI" di San Francesco che meriterebbe di essere ripristinata.
Erano i "cavadduzzi", piccoli cavalli o, per essere più esatti, ippocampi fatti di uno scheletro di canne rivestito di cartapesta e sul dorso un foro da dove usciva il busto di chi, infilato dentro, li portava correndo.    
Ai fianchi, negli occhi, dentro le orecchie e nella coda, essi erano imbottiti di mortaretti, botti ed altri artifizi pirotecnici. La sera, a chiusura della festa di San Francesco che si celebra tuttora la seconda domenica di Pasqua nella chiesa del Rosario, venivano fatti correre lungo il corso Vittorio Emanuele, nel tratto che andava dalla cappella del Resuscitato, di fronte Bar Italia, non più esistente, alla via Regina Margherita.
Tra due  ali  di  folla  divertita  e   festante  ammassata  sui marciapiedi, correvano emanando luci e fiamme policrome da tutte le parti del corpo e sparando, lungo il percorso,  dei botti.  Percorrevano il tratto del corso sino a quando non si esaurivano i bengala: un grande botto finale disintegrava il povero cavalluccio sfinito e veramente ridotto in pezzettini. Bella veramente e tanto cara ai bambini, questa tradizione che voleva ricordare la miracolosa traversata dello stretto fatta da San Francesco di Paola, insieme con un suo confratello, da Reggio Calabria a Messina.
Secondo la leggenda, San Francesco, non avendo i soldi per pagare i traghettatori, distese il suo mantello sulle acque e ne legò un suo grosso e nodoso bastone in modo da formare una specie di vela. Ma la barca-mantello, per assenza di vento, non si muoveva e allora intervennero tanti ippocampi (detti "cavallucci marini" per il loro profilo equino) i quali, afferrato con i denti il lembo anteriore del mantello, trascinarono il santo e il suo confratello sulla spiaggia di Messina.


IL PALIO

Ogni anno , il giorno del trasferimento del quadro di Maria SS. delle Grazie dall'attuale chiesa, in contrada Corvo situata alla periferia della città, presso una famigli devota che per un certo periodo lo venerava e lo teneva per un certo periodo di tempo, si celebrava una simpatica festa campestre con corse di cavalli, musica e attrazion varie. Il vincitore della corsa, oltre ad un premio in denaro, riscuoteva il Palio della Madonna, consistente in 3 metri di stoffa, appesa ad una canna con l'immagine della Madonna.


"Li CUDDUREDDI di SAN VILASI", cioè di San Biagio, erano piccole rotelline di pasta senza nemmeno sale, fatte a forma di grande O non chiusa e con le estremità divaricate.
Per la festa di San Biagio, ricorrente il 3 febbraio e che ha luogo nella chiesa del Rosario dove il santo è venerato, si celebrava e forse si celebra ancora, una particolare funzione rievocante la tradizione secondo la quale il santo è il protettor dei malati di gola. In essa tutti i fedeli che avevano ricevuto grazie e quelli che,  soffrendo mal di gola, al santo si erano rivolti e si rivolgevano per essere guariti, portavano in chiesa "cuddureddi" che, benedette, venivano distribuite a tutti i presenti i quali, recitata devotamente una particolare preghiera a S. Biagio, le mangiavano.

"Li MUFFULETTA"  rientrano in una tradizione bella anch'essa "affievolita". Beniamino  Cammarata,  inteso "Picarillu nella sua dolceria in Corso Vittorio Emanuele sotto l'arco del Rosario, le faceva ogni anno e molto bene.
Questa tradizione, come del resto l'altra dei "biscotti di San Martino" si rinnovava annualmente l'11 novembre, festa appunto di San Martino, giorno in cui tutti i sancataldesi mangiavano a colazione i "muffuletta" che altro non erano (e sono), focacce ripiene di ricotta e miele, a differenza di quelle che facevano a Caltanissetta, piene di caciocavallo grattuggiato a fili lunghi, milza e "bagnate" di sugo bianco di maiale.
Per la rivendita di questi "muffuletta" esisteva, proprio davanti al cancelletto in ferro della chiesa del Rosario, una grande baracca o chiosco in legno, di forma esagonale, bella e alquanto caratteristica, nella quale, la mattina prestissimo verso le 5, a lume di petrolio o acetilene, cominciava la vendita annunziata da una voce squillante e penetrante che gridava:
"chià, muffuletta chià cc'u lu meli e la ricotta chià veni conza... veni conza"
Il significato esatto di quel "chià" ripetuto tre volte e di quel "veni conza"   non è molto chiaro e, per quanti tentativi si sia fatti, non si è riusciti a decifrarlo. Perciò ogni padre, prima di recarsi al lavoro, usciva di casa e vi ritornava poco dopo, contento e felice, con un involto pieno di e fragranti "muffuletta" che i figli avidamente divoravano standosene ancora a letto. Altri tempi, altre gioie fatte di piccole cose, ma belle e indimenticabili.

La tradizione di
"Li MURTI", "affievolita" ma non estinta, anche se discutibile, aveva senza dubbio significato educativo: il ricordo e il culto dei defunti. Nel giorno della loro commemorazione, ricorrenza che non può morire e non morrà mai, s'inserisce ancora la tradizione, bella e suggestiva per i bambini, secondo la quale i cari estinti portavano, di notte e a tutti invisibili, doni e giocattoli e in particolare "pupi di zuccaru", statuette di zucchero, e "frutti di Martorana", cioè dolci di mandorla riproducenti, nella forma e nei colori naturali, i frutti veri.


"Li GANGALARRUNA o MARRANZANU o SCACCIAPENSIERI" e "LI SIRINATI" rientrano in altre tradizioni di natura georgica e sentimentale anch'esse tramontate o estinte per sempre.
Il gangalarruni è un piccolo strumento di ferro, di forma circolare, una specie di ferro di cavallo con la curvatura più rotonda e le estremità più strette, con una linguetta o grilletto al centro, che suona applicato alle labbra e percosso con l'indice della mano destra. Produce un suono caratteristico e melodioso, triste e dolce, ed era usato dai contadini nelle pause di riposo, dai pastori durante la guardia alle greggi e, spesso, anche nelle "putie di vinu" e nelle serenate alle innamorate.


"LI SIRINATI" erano canti d'amore, accompagnati da musica, che gli innammorati facevano, o delegavano altri a fare, di notte, sotto la finestra o il balcone dell'innamorata. Talvolta erano intere orchestrine che si organizzavano e delle quali fu, nei primi tempi, protagonista un barbiere che suonava la chitarra come un angelo: di lui, trasferitosi ai tempi, a Milano, si erano perse le tracce. Altro protagonista di serenate fu Ernesto Maira, valente ebanista e provetto suonatore dilettante di violino.
Queste serenate, veramente belle e patetiche, sono ricordate, da chi  le ha sentite, con nostalgia e rimpianto, e  spesso però esse si concludevano nel modo più impensato, inatteso e indesiderato dallo spasimante perché, invece del garofano staccato dal vaso posto sul davanzale della finestra, il cantante-suonatore, si sentiva arrivare addosso un liquido che non sempre era acqua pura... Comunque si concludessero, erano tuttavia belle, tanto belle e sognanti che vorremmo che tornassero a farsi.

Fanno parte della tradizione i
"'NGIAMBELLI", nei tempi passati una specialità esclusiva di San Cataldo,  dolci fatti con tuorli d'uovo, zucchero e maiorca dosati nelle quantità che soltanto pochi conoscevano.  Era un segreto noto soltanto a pochi e che, tramandato gelosamente da madre in figlia, era tenuto impresso nella memoria ad evitare che, scritto, potesse, in un modo o in un altro, venire a conoscenza di altri.
Di forma ellissoidale, erano color giallo-oro nella parte grande e interna, mentre l'orlo era di color marrone e, di sotto erano lisce e lucide, come la parte superiore, ma senza l'orlo: pur non avendo, checché ne dica il proverbio, alcun buco, erano una meraviglia a guardarsi ed una squisitezza a mangiarsi. Rinomata e provetta "manipolatrice" di ciambelle fu Carmela Falzone, maritata Calabrese, la quale trasmise le dosi alla figlia Graziella.

I FUOCHl DI ARTIFICIO dei fratelli Picone, chiudevano fragorosamente tutte le feste e le ricorrenze, destando gioia e letizia in chi li vedeva e li sentiva, ma costituendo grave rischio e pericolo per chi li confezionava. Infatti negli anni, intere famiglie del "clan" dei Picone sono state decimate dallo scoppio della polveriera o di una bomba a terra. La signora Adelina Di Forti, maritata con Vincenzo Picone, ricordava che, ogni volta che i suoi cari sparavano i "botti", soleva stare dietro la finestra a recitare il rosario ed a contare i secondi che intercorrevano tra il sibilo prodotto all'uscita della bomba del mortaretto e lo scoppio della bomba stessa: se il botto seguiva immediatamente il sibilo, ciò stava ad indicare l'esplosione della a terra, ovvero la sciagura. Tuttavia rischi e pericoli sono stati spesso ripagati, più che da denaro, da grandi soddisfazioni, tra le quali, degna di ricordo quella dei fratelli Salvatore e Vincenzo i quali, partecipando a numerosi concorsi e gare, avevano assai spesso conseguito la vittoria.
Un anno parteciparono ad un concorso di giochi pirotecnici, a Palermo dal Comitato dei festeggiamenti in onore di Santa Rosalia, risultando i vincitori assoluti, e acclamati da tutta la folla che in piazza Marina andò in delirio.


LA RUOTA
Fin dal Medio Evo in Sicilia la protezione dei trovatelli era molto sentita. In ogni ospedale vi era un reparto adibito al ricovero dei proietti per un sano allevamento.
"Nei primi del sec. XV in quasi tutti i Comuni dell'Isola fu istituito un Mons Pietatis seu Caritatis allo scopo di distribuire frumento ai poveri, pane ai carcerati e ricovero agli ammalati". Tale istituto provvedeva anche ad affidare i trovatelli alle nutrici.
Nell'anno 1750 per ordine del Viceré in ogni Comune venne creata la cosiddetta Ruota per la ricezione dei trovatelli.
Nel nostro paese la ruota nacque subito dopo l'ordine emanato dal Viceré; la via ove essa era ubicata assunse la denominazione di via Ruota, denominazione che viene tuttora conservata.
Abolita la Ruota, l'Opera Nazionale Maternità e Infanzia, che aveva una attrezzatura medico-sanitaria propria, approntò, anche nel nostro paese, degli ambulatori che provvedevano, oltre che all'assistenza igienico-sanitaria dei piccoli, anche a quella delle puerpere povere.


IL MONTE FRUMENTARIO
Il popolo siciliano nel sec. XVIII cadde in miseria per ragioni varie.
Le famiglie più agiate fecero di tutto per venire incontro ai bisogni più urgenti della classe povera con cospicue elargizioni e interventi di ogni genere. Si ingaggiò, così, una grande lotta a favore dei meno abbienti. Fra le varie iniziative di carattere altruistico-umanitario, venne creato quello che si chiamò Monte Frumentario, che aveva lo scopo di acquistare il grano all'epoca del raccolto, a prezzi modici, per prestarlo ai contadini al momento della semina. I villani erano tenuti a restituire il grano al momento del raccolto senza interessi, o con interesse minimo.
Nella nostra città il Monte Frumentario nacque per lo spiccato altruismo di un proprietario terriero appartenente a una delle più facoltose famiglie sancataldesi.
Con testamento del 5 Giugno 1849 il Notaio don Salvatore Baglio costituiva una colonna di grano di Salme 150, pari a circa Quintali 336 e ne affidava la relativa amministrazione al Parroco Vicario Foraneo pro tempore. Più tardi il Monte si trasformò in Cassa Comunale di Credito Agrario e allora fu necessità eleggere un Consiglio di Amministrazione con a capo il Presidente con un cassiere e un segretario.
Uno dei cassieri che riscosse la più grande fiducia della cittadinanza fu il prof. Salvatore Maira. Alla sua morte, avvenuta nel 1923, fu sostituito dal figlio, farmacista Raimondo, uomo di ineccepibile dignità e onestà, il quale veniva degnamente coadiuvato dal segretario sig. Luzio Giuseppe, già impiegato presso la Banca Popolare Don Bosco di S. Cataldo.
Quando il Governo Nazionale decise l'ammasso obbligatorio del grano, la Cassa di Credito Agrario fu costretta a vendere l'intera partita di grano che teneva nei magazzini, ma continuò la sua benevola attività con la cessione ai contadini di piccoli prestiti in denaro.
Lo scopo originario, però, venne frustrato, specie con l'incalzare della svalutazione monetaria.
Durante la seconda guerra mondiale, nel 1943, il popolo saccheggiò la sede della Cassa di Piazza Madrice e asportò e distrusse tutto il mobilio.
Questa fu l'occasione perché la Cassa chiudesse definitivamente i battenti. Il capitale residuato venne versato al Banco di Sicilia.


DAZIO SUL MACINATO
Nell'anno 1564 venne introdotto in Sicilia "IL DAZIO SUL MACINATO". Si pagavano Tari 13,12 per ogni salma di grano, e ciò era veramente esoso, sia per l'esagerazione dell'imposta, sia perché gravava quasi esclusivamente sulla classe più misera e più numerosa (i contadini) e ancora per le modalità di esazione, che inceppavano il regolare svolgimento dei lavori rurali creando dei malcontenti tra gli agricoltori.
Nel 1838 "il dazio sul macinato" fu ridotto da Tari 13,12 a Tari 9,12 senza peraltro che la situazione migliorasse granché.
Fu giocoforza nominare in ogni mulino un custode-pesatore.
Da questo momento i mulini erano costretti a stare aperti dall'alba al tramonto e, tanto il grano che la farina, erano accompagnati da bollette dalle cui contestazioni, spesso, originavano delle multe pesanti e delle pene severissime anche per infrazioni di poco conto.
Su proposta del ministro Cordova, nell'anno 1848, il Parlamento abolì il dazio sul macinato perché "Giustizia esigeva" che "fosse liberato il pane spettante al povero".


I CASOTTI

I "Casutti" a S. Cataldo erano n. 9: Cappuccini, via Don Bosco (allora contrada Noce), via Misteri, S. Antonio, S. Gaetano, Cannolello, Achille Carusi (Orto), S. Fara (per la stazione ferroviaria), S. Fara (Decano).
II Comune aveva un corpo di Guardie Daziarie che prestavano servizio di giorno e di notte stando nei casotti e nelle vicinanze, controllando le merci che entravano dal di fuori.
Le merci soggette a dazio venivano sottoposte al pagamento dell'imposta relativa, che veniva esatta dalla guardia di servizio che rilasciava anche regolare ricevuta. Conseguentemente tutti coloro i quali entravano da qualunque strada nel paese, venivano sottoposti a controllo e, qualche volta, anche a perquisizione.
Ogni "Casotto" era dotato di una tromba, che serviva, nelle ore notturne e in quelle precedentemente stabilite, a richiamara l'attenzione delle guardie e a far comprendere alla popolazione che la vigilanza era sempre attiva.
La popolazione, evidentemente, mal digeriva questa forma di esazione dell'imposta che sapeva di schiavitù e qualche volta diede luogo a dimostrazioni ostili all'Amministrazione Comunale. La Legge 14 Settembre 1931 n. 1175 decretò l'abolizione dei Casotti e a S. Cataldo l'Amministrazione Comunale, applicando la Legge 23/1/1902 e 24/9/1923 n. 2030, nell'anno 1925 abolì la cinta daziaria e le guardie daziarie furono tutte sistemate altrove.


I VIAGGI DELLA PORZIUNCOLA
Al di qua del sagrato e nella piazza S. Francesco, antistante la chiesa dei Cappuccini, vi è tuttora una Croce in ferro su basamento di pantofole. I Monaci, l'1 e il 2 Agosto di ogni anno, facevano i cosiddetti Viaggi della Porziuncola; si recavano, cioè, dalla Chiesa alla Croce e viceversa, salmodiando. La Croce rappresentava la Chiesa della Porziuncola. Con i suddetti viaggi si guadagnava l'indulgenza che fu concessa a S. Francesco nel 1221 in una visione di Gesù Cristo e di Maria SS.
Papa Gregorio XV, con bolla del 4 Luglio 1622, estese la suddetta indulgenza a tutte le chiese dell'Ordine Francescano.


I SANTI CARCERATI
Profondamente cattolico, ma talvolta fanatico nei suoi sentimenti religiosi, il nostro popolo, in occasione di pubbliche calamità (epidemie, siccità, alluvioni ecc.), quasi a volere strappare a forza la grazia ai Santi, soleva mandarli carcerati.
La manifestazione consisteva nel portare alcune statue in processione dalle loro chiese a quella del Convento, ove rimanevano fino a quando non cessava la pubblica calamità o, per meglio dire, fino a quando i Santi, con la loro intercessione, non avessero ottenuto dal Signore la grazia richiesta.
Durante la carcerazione, ogni sera, dalle chiese principali (oggi parrocchie) si partivano imponenti pellegrinaggi di uomini e di donne che si recavano, pregando, nella chiesa della Mercede mentre le campane suonavano a scongiuro.
Qualche volta simili manifestazioni degenerarono causando degli incidenti spiacevoli dovuti al fanatismo. In una di esse la Statua di S. Francesco dì Paola, che si ammira nella Parrocchia del SS. Rosario, cadde a terra e ne fu danneggiata. Venne poi restaurata da certo Alù, nostro concittadino, che si dilettava di scultura.
Tali manifestazioni sono cadute in disuso e, in casi estremi di pubbliche calamità, i Sacerdoti indicono dei pellegrinaggi austeri e dignitosi che, con la preghiera, intensificano la fede.


IL TELEGRAFO
In seguito a delibera consiliare del 09-05-1868, con la quale si sollecitava l'istituzione dell'ufficio telegrafico, con Decreto Reale del 29 Agosto 1869 esso veniva impiantato a spese del Comune.
Con Ministeriale del giorno successivo fu nominato il sig. Roberto Pignato, incaricato provvisorio.
Egli percepiva £. 0,60 a telegramma di partenza fino a £. 600 all'anno e £. 0,20 per il di più. Più tardi gli venne garantito l'assegno annuo di £. 1000, dall'Aprile 1880 al Dicembre 1885. Nel 1889 l'Ufficio fu elevato a seconda classe e le spese relative furono assunte dallo Stato.


LA PESCHERIA
Sin dalla sua fondazione la nostra città ha sempre fatto largo consumo di pesce fresco, che, dapprima, proveniva dalla marina di Palma Montechiaro e poi anche da quella di Licata.
Il pesce giungeva in cofani e ceste e veniva venduto in bancarelle all'aperto, oppure dentro il fondaco ove alloggiavano i pescivendoli.
La prima pescheria sorse nel 1871 sullo spiazzo esistente nel largo dei Cannoli. Ivi ergevasi, isolata, una umilissima casa terrana, che fu ceduta in locazione al Comune, fino al 31 Agosto 1908, dai proprietari sigg. Lunetta.
Quando si aprì al traffico il tronco ferroviario S. Cataldo-Canicattì-Licata, il pesce cominciò a giungere in paese in treno.
Non essendo più la vecchia pescheria rispondente alle nuove esigenze igienico-sanitarie e avendo essa muri poco stabili per la vetustà, si pensò di costruirne una moderna in posto più adatto.
Scaduto il contratto di locazione con i sigg. Lunetta, nell'anno 1908-1909 il pesce si vendette in un terrano di proprietà comunale sito in Corso Vittorio Emanuele proprio nel punto dove era nata la Chiesa della Provvidenza (ex Società Militari in Congedo).
Mentre gli amministratori comunali del tempo andavano alla ricerca del posto più idoneo ove ubicare la nuova Pescheria, nell'Agosto 1904, franava la casa Alù (sita nel Largo Salomone).
Il Farmacista Rizzo, consigliere comunale, ne propose al Comune l'acquisto e la demolizione per costruirvi la nuova pescheria. La proposta ebbe il suo iter faticoso ma trionfò.
Nell'Ottobre del 1909 la vecchia pescheria venne abbattuta e, contemporaneamente, venne aperta al pubblico la nuova.
Dopo la seconda guerra mondiale, si sono aperte delle case private di vendita del pesce, che proveniva dalle marine di Licata e di Mazara del Vallo, dove la pesca, ormai, era industrializzata.


IL BEVAIO E LA PIAZZA RISORGIMENTO
Nel centro dell'ampio spiazzale Risorgimento, fino al 1959, si ergeva una imponente vasca, che serviva alla nostra popolazione agricola come pubblico abbeveratoio per gli animali.
Costruito in pietra forte intagliata, su un largo impiantito, aveva forma ottagonale bombata. Nel centro si innalzava una colonna, anch'essa ottagona, su cui poggiava un grande vassoio circolare e poi ancora una colonna più snella dalla quale zampillava, lucida e gorgogliante, l'acqua che, cadendo con tintinnio ritmato sul fonte circolare, si spandeva a pioggia, formando una graziosa cascata che picchiettava sull'acqua della vasca spingendo in alto miriadi di bollicine, che si disfacevano immediatamente come fuochi fatui.
Il bevaio era alimentato dalla sorgente che scaturiva dal giardinetto della Casa del Principe Galletti, fondatore della città, e dalla caduta dell'acqua dei Cannoli.
Col tempo l'impianto divenne una vera e propria pozzanghera di fango, focolaio di infezioni, nocivo alla salute.
Il Sindaco, nel suddetto anno 1959, fece rimuovere il bevaio e nacque così lo Spiazzale che attualmente è la Piazza Risorgimento.


LE TORRI CIVICHE - GLI OROLOGI
Il Re Filippo III, nel decretare la fondazione del paese, concesse al Barone di Fiumesalato il diritto di costruire, tra l'altro, una torre per la difesa: "Concedimus... Turrim... Construere".
Essa fu fatta erigere nella parte più alta (monte Taborre) in modo da dominare l'intero abitato, a forma quadrangolare, terminante con una cuspide formata da ferri ricurvi, che, partendo dai quattro angoli della torre, si intersecavano in alto a forma ogivale.
Nell'anno 1780 si provvide ad istallarvi un orologio con quattro quadranti di marmo e provvisto di suoneria battente le ore su due campane squillanti.
Nel 1959, il Sindaco prof. Michele Andaloro, rilevate le precarie condizioni statiche della torre, la fece abbattere dando, nel contempo, incarico all'ing. Alfonso Augello, funzionario dell'Ufficio del Genio Civile di Caltanissetta, di progettare una nuova torre.
Commissionò, contemporaneamente, alla ditta Giovanni Frassoni di Rovato (Brescia) un nuovo orologio munito di suoneria a Carillon, che diffondesse il motivo Westminster, come l'orologio del campanile della Cattedrale di Londra.
L'opera fu realizzata in poco tempo ma l'orologio non diede i risultati che si speravano.
L'altra torre civica facente corpo unico con la chiesa del SS. Rosario, venne innalzata a cura e spese del Comune nel 1820, a più riprese, secondo le disponibilità finanziarie, fino a quando non si arrivò alle mensole, sulle quali, più tardi, fu sistemato il chiosco in ferro, che ha tutta una sua forma particolare. Ma la costruzione, oltre agli intoppi di ordine finanziario, subì anche dei ritardi per l'intervento del proprietario della casa attigua alla torre, certo sig. Nenè Gibaldi, il quale, preoccupato che una simile costruzione potesse essere, in qualche modo, di nocumento alla sua casa, fece ricorso al Sindaco sostenendo che il terreno non fosse idoneo a sopportare l'enorme peso della civica torre alta m.35.
Il Sindaco fece fare dei sondaggi tecnici e, accertato che si trattava di terreno compatto, diede il via al progetto dell'ing. Vincenzo Vizzini che diresse i lavori.
Quando la costruzione giunse al piano dei quadranti, non essendo ancora pronta la cupola-chiosco in ferro, vi furono fissate delle mensole che portavano una cupoletta provvisoria a spiovente.
Successivamente sul piano dei quadranti venne sistemata la caratteristica cupola-chiosco, opera del fabbro-ferraio sig. Ignazio Anzalone fu Domenico, sancataldese, nato il 04-02-1865 e morto il 21-02-1956.
La ditta Fratelli Solari di Pesariis (Udine) costruì l'orologio con quattro quadranti, che cominciò a funzionare il 18-19 Luglio 1890.
Il quadrante prospiciente il Corso Vittorio Emanuele era in cristallo di Boemia opaco, che, a sera, veniva illuminato dall'interno.
Gli altri tre fino al 1929 erano in marmo, sostituiti, poi, con altri in cristallo opaco. Oltre a battere i quarti, le mezz'ore e le ore era fornito di una suoneria ausiliaria a Din... Dan... che all'alba svegliava l'operaio che doveva recarsi al lavoro, alle otto del mattino avvertiva gli scolari che bisognava prepararsi ad andare a scuola, a mezzogiorno segnava l'ora della sospensione del lavoro per il pranzo e, alla mezzanotte, faceva affrettare il passo ai nottambuli per rincasare.

I DUE OROLOGI SCIARRIATI
Gli orologi delle due civiche torri pare siano nati in odioso antagonismo, per cui vivevano in eterna lite ed era impossibile farli andare d'accordo, nonostante i continui tentativi di riappacificazione esperiti dai sig.ri Bannò, addetti alla manutenzione delle macchine e delle suonerie.
Ciò venne rilevato diuturnamente dalla cittadinanza, la quale perse ogni fiducia nei due civici orologi.
Nel 1904, il periodico settimanale L'Indipendente così scriveva a proposito di tale dissidio: "Capricciosissimi nel segnare le ore, la notte spesso tacitano, e, qualche volta, di notte, passano con grande disinvoltura dalle 24 alle 5 del mattino, e, al mattino, quando è giorno chiaro, ci vogliono far credere che sono le ore due e mezzo."


LA PUBBLICA ILLUMINAZIONE
Per molti anni il Comune conservò la primitiva fisionomia rurale. Il servizio municipale della pubblica illuminazione si attuò molto tardi. Solo nel 1874 venne istituito a petrolio. Sui marciapiedi del Corso Vittorio Emanuele e nelle piazze principali vennero istallati n. 59 candelabri; le altre vie, invece, furono servite da 237 fanali a braccio su mensole. Per i primi due anni, 1875-1876, la pubblica illuminazione venne ceduta in appalto per la somma di lire 700 per ogni cento ore di illuminazione e, solo per n.160 fanali. L'appalto però non diede buoni risultati, e, scaduto il termine, il servizio fu gestito direttamente in economia dal Comune, il quale, a tal proposito, dovette istituire un corpo di 5 salariati accenditori, o lampionari. Tutte le sere, all'Ave Maria, armati di scale leggere, appositamente costruite, i lampionari uscivano dalla sede-deposito, si sparpagliavano per i rioni e andavano ad accendere i lumi, ognuno dei quali aveva una carica sufficiente per quattro ore di luce. Al mattino i lampionari provvedevano alla pulizia dei fanali, dei lumi e ricaricavano questi ultimi di petrolio per la sera. Nei giorni di luna i fanali riposavano, nonostante le continue proteste e i richiami dei cittadini. Qualche fanale aristocratico aveva il privilegio della doppia razione di petrolio e durava acceso per quasi l'intera notte. La spesa annua si aggirava intorno alle novemila lire, somma che veniva ricavata dalla tassa focatico, volgarmente detta del "lampione", istituita nell'anno 1876. Nel Marzo del 1906, l'Amministrazione Comunale, volendo impiantare l'illuminazione pubblica a corrente elettrica, lanciava l'invito alla cittadinanza perché chiunque ne avesse interesse e convenienza facesse offerta tenendo presente che doveva essere adoperato il materiale esistente utilizzabile (candelabri, fanali a mensola, ecc.), opportunamente trasformato. Ci furono vari tentativi, finché si giunse al 1910, anno in cui l'energia elettrica illuminante venne fornita dal mulino La Grazia, ubicato allora nella sede attuale della Clinica Regina Pacis (ex clinica Maira). Durante gli anni 1917-1918, a causa del primo conflitto mondiale, l'amministrazione comunale fu costretta a sospendere la pubblica illuminazione, per mancanza di fondi. L'erogazione dell'energia fu ripristinata nel 1919 per contratto stipulato con la ditta Fratelli Di Pietra, proprietari del mulino omonimo che  agiva in Via Stazione. Nel 1929 la fornitura elettrica fu assunta dalla Soc. Anon La Vittoria fino a quando non è intervenuta la nazionalizzazione, e il conseguente passaggio all'ENEL.


                  Salvatore Arcarese, Giuseppe A. Di Forti, Salvatore G. Falzone.

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