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Don Filippo Di Forti

San Cataldo > San Cataldo fra cronache e misteri

Il 16 agosto 1910, a S. Cataldo, all’uscita dalla Chiesa Madre, all’incrocio con le vie Cavour e Regina Elena, mentre tornava a casa intorno alle 21.00, con due colpi di revolver all’addome, “a distanza non minore di tre metri”, viene ucciso il sacerdote sancataldese Filippo Di Forti, 43 anni economo del Seminario.
L’omicidio potrebbe essere collegato con l’attività svolta dal sacerdote, ma sul delitto e sulla personalità della vittima mancano informazioni adeguate per poter esprimere un giudizio attendibile. Movente misterioso e autori ignoti, ma la matrice mafiosa del delitto è ritenuta la più credibile, infatti il sito dellaTreccani, lo indica come il primo sacerdote ucciso dalla mafia in Sicilia negli anni a cavallo della prima guerra mondiale.
Ad indicare il sacerdote come vittima della mafia, nella stagione delle Casse Rurali cattoliche che contendevano ai gabelloti usurai il credito agli agricoltori, anche gli studi del sociologo Isaia Sales “I preti e i mafiosi”, e dello storico Giuseppe Carlo Marino “L’altra resistenza.”
Don Di Forti sarebbe quindi il primo di una serie di sacerdoti uccisi dal 1910 al 1919 in Sicilia, tutti legati alle vicende del movimento cattolico e delle Casse rurali, tutti nella Sicilia occidentale, tre su cinque incardinati nelle diocesi di Caltanissetta e Monreale, rette in quegli anni dal medesimo vescovo: mons. Antonio Augusto Intreccialagli.
Don Filippo Di Forti nel movimento cattolico dell’inizio del secolo aveva avuto un ruolo ben definito: oltre ad essere stato fino al 1908 economo del Seminario vescovile, all’epoca dell’omicidio era l’amministratore della Cooperativa di consumo S. Rosalia e Segretario della Cassa Agraria di S. Cataldo, il centro del nisseno in cui era sorta una tra le prime Casse Rurali italiane, nel 1895.
L’omicidio di quel sacerdote mite, operoso, impegnato nel movimento cattolico, stimato e ben voluto da tutti, aveva suscitato grande scalpore, e, anche se le cronache dell’epoca non ne parlarono in questi termini (ma nel 1910 sulla stampa siciliana di qualunque tipo il termine e il concetto di “mafia” non erano mai evocati), la vicenda di don Di Forti presenta una serie di elementi che rendono molto plausibile questa motivazione del delitto, soprattutto se inquadrata nel contesto della Sicilia interna tra fine ‘800 e inizio ‘900.  Qualche settimana dopo l’omicidio, l’8 settembre, venivano catturati due contadini, Calogero (con diverse condanne per lesioni) e Michele Iacolina, padre e figlio, rispettivamente di 54 e 18 anni (anche se già coniugato e con due figli il giovane), che l’opinione pubblica aveva “additato”, come riferiscono gli atti del processo, e che rischiarono il linciaggio se “un forte gruppo di guardie non l’avesse protetti contro l’ira popolare”.

Il delitto Di Forti e un processo troppo scontato


Il giovane Iacolina, (minorenne, al quale l’ergastolo per omicidio premeditato era inapplicabile), sarebbe stato condannato a 20 anni, 10 mesi e 4 giorni di reclusione, due anni di sorveglianza speciale e interdizione perpetua dai pubblici uffici. Per il padre Calogero soltanto una condanna per porto abusivo di arma da fuoco, successivamente prescritta. Mentre la sorella della vittima, Giuseppa Di Forti, per la costituzione parte civile si era avvalsa del gratuito patrocinio (con tanto di certificato di povertà agli atti). Gli imputati, apparentemente nullatenenti, erano stati difesi dal più grande avvocato del tempo nel centro Sicilia: Rosario Pasqualino Vassallo, deputato dal 1904, che sarebbe diventato Sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia e poi ministro del governo Giolitti nel 1920, e che, dopo aver impostato e condotto tutto il processo, si sarebbe misteriosamente ritirato dalla difesa a pochi giorni dalla sentenza, con la motivazione che gli imputati non sarebbero stati in grado di pagarlo.
Tutto sembrava rispondere alla logica di una lite tra parenti, divisi da una questione di eredità. Infatti quindici anni prima al Di Forti uno zio aveva lasciato l’usufrutto (13 lire e 17 centesimi l’anno) di un fondo“ per dignitosamente sostentarsi da sacerdote”, fondo di cui diventava proprietaria la sorella Carmela, sposata proprio con Iacolina e madre del giovane condannato. Iacolina padre non aveva mai digerito quell’usufrutto al nipote, e già qualche anno prima era stato condannato per “usurpazione di terreno” per avere abbattuto le recinzioni con il suo fondo, confinante. La questione era quindi già stata definita per via giudiziaria da diversi anni. Invece, un mese prima del delitto, Calogero Iacolina era andato fin nella sede della Cassa Agraria a minacciare don Di Forti, in pubblico e a gran voce, ripetendo più volte che "voleva ammazzarlo, che voleva bere il sangue suo e sempre nelle mie mani devi morire”.
Una settimana prima dell’omicidio, in un contrasto con il mezzadro che si occupava del fondo conteso, che gli aveva contestato di non essere lo Iacolina il padrone, questi gli aveva risposto, “con fare minaccioso e tale da fare comprendere i suoi propositi ostili: “E’ vero, ma se non ne sono padrone oggi potrò esserlo domani”.
Nei tre giorni precedenti al delitto, il figlio Michele si era ostentatamente fatto notare appostato a lungo fuori dalla chiesa madre, all’angolo della piazza, e il giorno dell’omicidio, “mentre si trovava nella bottega del barbiere Carpitello mostrò la rivoltella e disse che in quella sera doveva andare a rissarsi con un prete”, mostrando la rivoltella e dopo aver scaricato e ricaricato la rivoltella a 5 colpi. L’eccesso di ostentazione di quei giorni colpisce, specialmente rispetto a una vicenda ormai chiusa 15 anni prima con una sentenza dell’autorità giudiziaria; come se si volesse costruire, per una morte annunciata, un movente inoppugnabile ed una serie di prove a sostegno, confermate dai testimoni chiamati a validarle.
Al processo però il barbiere Carpitello non riconobbe nell’arma del delitto la rivoltella che gli aveva mostrato Iacolina, l’armiere testimoniò di non averla mai venduta all’imputato, e il perito del Tribunale indicò un calibro dei proiettili mortali ben diverso.
Altri testimoni avevano affermato inoltre che due persone, (non una) appostate ad attendere la vittima, “essendo passato poco prima di lì il sacerdote Calì, si domandarono reciprocamente se fosse quello che aspettavano”, circostanza strana per chi avrebbe dovuto conoscere molto bene padre Di Forti, in un punto della strada illuminato da “un fanale all’angolo di piazza Madrice con largo Cavour”. La tecnica del depistaggio del resto si sarebbe manifestata in altri casi di sacerdoti uccisi dalla mafia.
Sulla figura limpida ed esemplare del sacerdote Di Forti, la stampa diocesana si era espressa invece senza ombra di dubbi, e “L’Aurora” aveva seguito gli eventi e il processo con puntuale attenzione. Il profilo dell’articolo “In memoriam”, ne delineava la personalità, lasciando anche leggere, tra le righe, più di quanto si fosse dichiarato ufficialmente: “Sacerdote esemplare, pio, lavoratore, fu amico buono, leale, fedele, fino al sacrificio della vita e per fino delle proprie idee, sacrificio tanto più nobile in quanto che il pensiero è la più elevata manifestazione della vita. Nei trionfi procurati agli amici con l’attività della sua cooperazione rimaneva nascosto, ma nelle amarezze e nelle lotte di essi l’umile sacerdote usciva sulla breccia come un gigante dalla tenda del riposo, e, prudente, fermo lottava fino all’ultimo momento. Per vari anni economo del nostro Seminario, non vide in quest’ufficio semplice mestiere con l’unica finalità del guadagno e dell’amministrazione dell’ente o un libro dove fossero scritte solo due parole: introito ed esito, ma un ministero, e l’esercitò ispirandosi a questo ideale e mostrando un corredo di virtù che solo una nobilissima meta e una concezione della vita possono ispirare”.
Il Vescovo in persona, Mons. Intreccialagli, aveva partecipato ai suoi funerali con grande solennità, portando a S. Cataldo tutto il clero diocesano, le religiose, le orfanelle degli Istituti, e tutte le simbologie dell’autorità religiosa con particolare rilievo. La sua personalità ascetica e limpidamente spirituale non gli avrebbe consentito quel genere di testimonianza in presenza di qualsiasi ombra eventualmente ipotizzata sulla vita della vittima. La documentazione sul processo seguito al delitto, conservata presso l’Archivio di Stato di Caltanissetta, è ricca di verbali e testimonianze che convergono con insistenza, eccessiva, sull’individuazione dei due colpevoli, uno come mandante e uno come esecutore, senza trascurare quanto dichiarato da un teste che aveva parlato con il giovane nei giorni della latitanza, il quale “con parole molto enigmati che faceva risalire al padre la responsabilità principale del delitto”.
Il giovane minorenne era il colpevole ideale, per evitare la pena massima, e la famiglia che aveva notoriamente ragioni di odio verso il sacerdote era il contesto “naturale” in cui il delitto poteva essere maturato, senza fare emergere altre motivazioni, legate al ruolo del sacerdote Di Forti di riferimento per il credito agrario a S. Cataldo, dove era nata la Cassa Rurale già nel 1895 (una delle prime in Italia), in una diocesi, quella di Caltanissetta, che proprio pochi mesi dopo il delitto, il 10 novembre 1910, sarebbe diventata la sede di uno dei quattro Comitati interregionali delle Casse Rurali cattoliche, insieme a Milano, Bologna e Roma.
Inquietanti minacce e richieste di denaro avrebbero raggiunto il giovane Iacolina in carcere, con biglietti manoscritti (allegati al fascicolo giudiziario) che lasciavano intravedere misteriosi retroscena rispetto al delitto. Sarebbe uscito dal carcere dopo soli 16 anni, nel 1926, ormai in pieno regime fascista, con una serie di agevolazioni richieste per lui dagli alti livelli della magistratura.
Due anni prima, nel 1924 il suo avvocato, Pasqualino Vassallo era stato eletto nuovamente alla camera nel listone di Mussolini.
Nei primi decenni del ‘900 (e fino agli anni post-conciliari) la Chiesa negava l’esistenza di una “questione mafiosa” e quindi non era facile “segnalare come morti sul fronte antimafioso alcuni suoi figli. I preti assassinati svolsero la loro azione antimafiosa nell’indifferenza totale della Chiesa dell’epoca, sia locale sia nazionale”.
L’unica eccezione a questo silenzio di incomprensione riguarda proprio il Vescovo di Caltanissetta e Monreale, Mons. Intreccialagli, colpito nelle due diocesi che guidava dall’omicidio di tre suoi sacerdoti. In una drammatica lettera al Papa all’inizio degli anni ’20 confessava di avere ricevuto minacce di morte e di dubitare di alcuni sacerdoti di Monreale per la loro vicinanza ad ambienti mafiosi, e anche al fratello aveva confidato in un’altra lettera analoghe intimidazioni. Ma anche il Vescovo-Santo, uomo di coraggio e di intensa spiritualità, non aveva mai parlato pubblicamente di mafia. Nel processo di canonizzazione si è fatto riferimento più volte alla sua resistenza alle pressioni mafiose, e dunque sapeva bene in quale ambiente operava, ma è significativo che sia stato l’unico Vescovo della prima metà del ‘900 a parlarne nelle sue relazioni riservate alla Santa Sede.

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