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Il Colera a San Cataldo

San Cataldo > Avvenimenti

Il Colera

Giunse a S. Cataldo nel Giugno del 1837. Apparve nuovamente negli anni 1867 e nel Settembre del 1911.Un Comune come il nostro,  abitato nella grande maggioranza da villani e servi della gleba, che costituivano l'ultimo gradino della scala sociale, e pochi artigiani, non poteva che essere povero e poveri, infatti, erano i suoi abitanti, e facili, anche, a credenze superstiziose, che immancabilmente circolavano nelle diverse apparizioni del morbo. Si spargeva, infatti, insistentemente la voce che il colera fosse  diabolica opera del Governo, il quale faceva appositamente infettare acque, viveri, terreni, ecc. .I pubblici funzionari: Guardie, Vigili urbani, Agenti della Forza Pubblica, ecc. erano sospettati come untori.
I proprietari e i borgesi si trasferivano nelle campagne, ma il morbo non li risparmiava neanche all'aperto. Nelle città si verificarono delle ribellioni, proteste, dimostrazioni, ma il popolo sancataldese, in tutte le tre infezioni coleriche, rimase calmo.
L'epidemia del 1837 durò circa sei mesi in tutta la Sicilia e fu una vera e propria ecatombe. Per il seppellimento furono acquistati 3 tumoli di terra in contrada Raffonero dal sig. Cataldo Baglio e il Comune dovette ricorrere ad un prestito di onze 500, pari a £.6.375, prestito che approntarono i più abbienti della città (Sindaco don Gaetano Vassallo).
Quando, nel Maggio del 1867, il colera tornò a S. Cataldo, attaccò per prima il quartiere S. Stefano. I più facoltosi, al solito, si rifugiarono nelle campagne e in paese rimasero soltanto i poveri, e poveri e macilenti li trovò quell'ufficiale del  54° Fanteria, che venne destinato dal Generale Medici, Comandante la Divisione Militare di Palermo, al Comando del distaccamento militare di S. Cataldo. Edmondo De Amicis, ne "La Vita Militare", parlando del colera in Sicilia, in una pagina nera, descrive lo stato di miseria, di fame e di abbandono dei Sancataldesi "affamati com'erano da non reggersi in piedi, ognuno voleva essere il primo ad avere la sua cucchiaiata di brodo, si gettavano tutti insieme sulle marmitte, vi cacciavano dentro le scodelle a dieci a dieci, respingendosi e percotendosi l'un l'altro e urlando come forsennati, donne, vecchi, fanciulli, alla rinfusa; tutte facce scarne, con una certa espressione tra bieca e insensata, che destava in un punto paura e pietà; sordidi, cenciosi, seminudi, in uno stato che metteva ribrezzo. Eppure i soldati amavano meglio di stare in quel paese (S. Cataldo) dove i poveri non li lasciavano in pace, anziché in quegli altri dove li fuggivano per paura".
Pare che il colera abbia fatto 512 vittime quasi tutte tra i poveri. Quando nel Settembre del 1911 il colera riapparve, il Governo mandò a S. Cataldo le attrezzature necessarie per la difesa contro il male che mieteva tante vittime. Venne assegnato inoltre il dott. Fusco, medico della Croce Rossa Italiana, vero apostolo della Sanità, il quale, per espletare l'incarico, fu gentilmente ospitato in casa del sig. Capozzi Gaetano. Il sanitario si mise subito al lavoro e in brevissimo tempo riuscì ad ubicare la fonte dell'infezione: in contrada Jannigreco, nei pressi dei padiglioni dell'attuale E.S.A., vi era un pozzo di acqua inquinata. Alcune donne, recatesi nella contrada per la raccolta delle mandorle, ne furono attaccate. Venne approntato un lazzaretto o casa di isolamento dei colpiti presso la casa colonica del Comm. Cataldo Baglio, alle porte del paese, verso Serradifalco, in contrada Grotta. In breve tempo il terribile male fu debellato e il dott. Fusco, ultimata la sua missione a S. Cataldo, venne inviato, per lo stesso motivo, a Terranova (Gela). Alla partenza, la popolazione della città gli tributò una grandiosa manifestazione di affetto e riconoscenza, segno evidente di maturità e di consapevolezza del bene operato dal Fusco. A Gela il dott. Fusco venne attaccato dal male ma si guarì. Alla popolazione sancataldese che chiedeva continuamente notizie sul suo stato di salute rispose, con telegramma indirizzato al Cav. Capozzi, ringraziando e aggiungendo "L'ho avuto ma l'ho digerito".

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